“Un’immagine tipica della crisi economica mondiale degli anni Trenta del Novecento sono le fotografie di persone che si affollano intorno ai cancelli delle fabbriche chiuse cercando lavoro, anche se sanno benissimo che il lavoro non c’è”, scrive Richard Sennett in La cultura del nuovo capitalismo (2006, 65). Immagini che non cessano di turbarci, prosegue il sociologo, “perché lo spettro dell’inutilità continua a turbarci” (ibidem, corsivo mio). Squid Game è una fotografia di questo turbamento. Sono condannati all’inutilità l’ex operaio Seong Gi-hun, che perde il lavoro dopo uno sciopero-sommossa in una fabbrica di auto; il suo amico d’infanzia Cho Sang-woo, ex-capo di una società di investimenti, le cui elevate qualifiche scolastiche e professionali non bastano a salvarlo dal fallimento; così come Alì Abdul, l’unico non coreano del sanguinoso gioco del calamaro, immigrato pakistano sfruttato tanto nella competizione quanto nella vita reale, dove non viene pagato dal suo datore di lavoro. Lo spettro dell’inutilità si aggira nella Corea del Sud, ma la serie avrebbe potuto essere concepita e girata in qualsiasi altra economia capitalistica fon- data, almeno retoricamente, sulla meritocrazia: un mito che istituisce una consequenzialità indiscutibile tra duro lavoro e successo, dipingendo il fallimento come l’inevitabile e meritato destino degli incompetenti. Gli emarginati vivono una doppia sconfitta: perché incapaci di integrarsi nel sistema e godere del benessere in una società opulenta, e perché spinti a interiorizzare la propria inutilità come una colpa. Vittime, dunque, di una violenza simbolica (Bourdieu 1998), dolce, invisibile agli stessi oppressi, che fa dei diseredati un esercito di complici del potere, nella misura in cui riconoscono come unico ordine sociale possibile l’iniqua distribuzione delle risorse che li penalizza.

Meritocrazia, capitalismo, diseguaglianza. La serialità televisiva come strumento di critica sociale?

Marco Pedroni
Primo
2022

Abstract

“Un’immagine tipica della crisi economica mondiale degli anni Trenta del Novecento sono le fotografie di persone che si affollano intorno ai cancelli delle fabbriche chiuse cercando lavoro, anche se sanno benissimo che il lavoro non c’è”, scrive Richard Sennett in La cultura del nuovo capitalismo (2006, 65). Immagini che non cessano di turbarci, prosegue il sociologo, “perché lo spettro dell’inutilità continua a turbarci” (ibidem, corsivo mio). Squid Game è una fotografia di questo turbamento. Sono condannati all’inutilità l’ex operaio Seong Gi-hun, che perde il lavoro dopo uno sciopero-sommossa in una fabbrica di auto; il suo amico d’infanzia Cho Sang-woo, ex-capo di una società di investimenti, le cui elevate qualifiche scolastiche e professionali non bastano a salvarlo dal fallimento; così come Alì Abdul, l’unico non coreano del sanguinoso gioco del calamaro, immigrato pakistano sfruttato tanto nella competizione quanto nella vita reale, dove non viene pagato dal suo datore di lavoro. Lo spettro dell’inutilità si aggira nella Corea del Sud, ma la serie avrebbe potuto essere concepita e girata in qualsiasi altra economia capitalistica fon- data, almeno retoricamente, sulla meritocrazia: un mito che istituisce una consequenzialità indiscutibile tra duro lavoro e successo, dipingendo il fallimento come l’inevitabile e meritato destino degli incompetenti. Gli emarginati vivono una doppia sconfitta: perché incapaci di integrarsi nel sistema e godere del benessere in una società opulenta, e perché spinti a interiorizzare la propria inutilità come una colpa. Vittime, dunque, di una violenza simbolica (Bourdieu 1998), dolce, invisibile agli stessi oppressi, che fa dei diseredati un esercito di complici del potere, nella misura in cui riconoscono come unico ordine sociale possibile l’iniqua distribuzione delle risorse che li penalizza.
2022
978-88-98298-27-3
Squid Game; Social inequality; Tv series, Meritocracy
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