Negli ultimi decenni gli studi utopici appaiono caratterizzati da una specializzazione verso precise aree culturali e dall’esigenza di una riconcettualizzazione dell’utopia in rapporto all’interpretazione che ne hanno dato i pensatori della seconda metà del Novecento. In particolare, sono numerosi gli studi dedicati all’evoluzione del genere in Gran Bretagna e nelle Americhe, e alle relazioni fra utopia, distopia e generi affini, quali la fantasy e la science fiction: tali studi rivelano un interesse profondo per le interazioni con diversi codici espressivi quali il cinema e le arti, e con forme di letteratura di consumo. La tendenza all’iperspecialismo degli studi utopici ha causato la diminuzione di ricerche di vasto respiro : un fenomeno paradossale, se si considera che sono entrati nel linguaggio comune concetti quali “visione planetaria” e “globalizzazione”, e che, per converso, imprese finalizzate alla sistematizzazione di una sapere sono viste con sospetto, perché ritenute mai esaustive e inevitabilmente esposte al rischio della semplificazione e dello schematismo. Perché si è scelto di parlare di storia transnationale e non internazionale? Scegliere ‘INTERnationale’ avrebbe significato incentrare l’indagine sul rapporto “fra” le nazioni. ‘TRANSnationale’ invece mette a fuoco l’“oltre”, la possibilità di andare oltre alle singole identità nazionali e culturali per sviluppare comparazioni che intrecciano molteplici paesi e abbracciano i continenti nei quali la tradizione europea ha ritardato l’emergenza di una tradizione utopica aborigena, cioè le Americhe, l’Australia e la Nuova Zelanda, dove la massiccia immigrazione ha generato problemi di fusione e assimilazione fra i vari gruppi etnici. Studiare l’utopia in una prospettiva transnazionale significa dunque riconsiderare concetti fondanti quali identità nazionale, comunità, appartenenza, memoria storica/memorie storiche, e soprattutto interrogarsi sulla crisi del concetto di stato/nazione e sul nesso fra utopia e globalismo/localismo. Il concetto di globalismo ha messo in discussione l’idea di utopia stessa, perché, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento molte utopie si sono presentate come modelli socio-politici universalmente applicabili e quindi esportabili. Parlare di ‘prospettiva globale’, intesa come sinonimo di ‘visone universale’ immobilizza l’utopia, perché presuppone un atteggiamento omogeneizzante ed omologante. L’utopia è intrinsecamente “situata”, nasce da una specifica situazione storica che si vuole criticare e dunque modificare; per questo essa si pone come un modello, perché parte dal presente per andare oltre. Studiare le diverse tradizioni utopiche occidentali diventa tanto più importante quanto più fortemente si avverte la necessità di contrapporre modelli alternativi a quello americano, presentato come libertario, più democratico e dunque più civilizzato, e di immaginare una ‘nuova’ Europa come un progetto utopico che tragga forza da un laboratorio di idee. Durante il Novecento il concetto di utopia come paradigma è stato sottoposto ad una profonda revisione. Marc Bloch e Walter Benjamin hanno dimostrato che utopia e utopismo non possono essere disgiunti. Se l’utopia rischia di rimanere al di fuori del tempo storico, l’utopismo tenta di superarne i limiti perché recupera la storia attraverso la memoria. Comprendere che fra passato e presente c’è discontinuità, non linearità, consente di assumere un atteggiamento critico verso ciò che è stato e ciò che è, e di acquisire una capacità attiva nei confronti del futuro. In questo senso l’utopismo non è regressivo, consolatorio o nostalgico, ma possiede una forza critica propulsiva. Le ultime decadi del Novecento e i primi anni del Duemila, segnati dalla crisi delle ideologie comuniste e da guerre nazionalistiche, hanno obbligato gli studiosi a interrogarsi sulla frattura fra ciò che è e ciò che potrebbe/dovrebbe essere e sulla possibilità dell’utopia di rinnovarsi attraverso la storia.
Introduction
SPINOZZI, Paola;
2008
Abstract
Negli ultimi decenni gli studi utopici appaiono caratterizzati da una specializzazione verso precise aree culturali e dall’esigenza di una riconcettualizzazione dell’utopia in rapporto all’interpretazione che ne hanno dato i pensatori della seconda metà del Novecento. In particolare, sono numerosi gli studi dedicati all’evoluzione del genere in Gran Bretagna e nelle Americhe, e alle relazioni fra utopia, distopia e generi affini, quali la fantasy e la science fiction: tali studi rivelano un interesse profondo per le interazioni con diversi codici espressivi quali il cinema e le arti, e con forme di letteratura di consumo. La tendenza all’iperspecialismo degli studi utopici ha causato la diminuzione di ricerche di vasto respiro : un fenomeno paradossale, se si considera che sono entrati nel linguaggio comune concetti quali “visione planetaria” e “globalizzazione”, e che, per converso, imprese finalizzate alla sistematizzazione di una sapere sono viste con sospetto, perché ritenute mai esaustive e inevitabilmente esposte al rischio della semplificazione e dello schematismo. Perché si è scelto di parlare di storia transnationale e non internazionale? Scegliere ‘INTERnationale’ avrebbe significato incentrare l’indagine sul rapporto “fra” le nazioni. ‘TRANSnationale’ invece mette a fuoco l’“oltre”, la possibilità di andare oltre alle singole identità nazionali e culturali per sviluppare comparazioni che intrecciano molteplici paesi e abbracciano i continenti nei quali la tradizione europea ha ritardato l’emergenza di una tradizione utopica aborigena, cioè le Americhe, l’Australia e la Nuova Zelanda, dove la massiccia immigrazione ha generato problemi di fusione e assimilazione fra i vari gruppi etnici. Studiare l’utopia in una prospettiva transnazionale significa dunque riconsiderare concetti fondanti quali identità nazionale, comunità, appartenenza, memoria storica/memorie storiche, e soprattutto interrogarsi sulla crisi del concetto di stato/nazione e sul nesso fra utopia e globalismo/localismo. Il concetto di globalismo ha messo in discussione l’idea di utopia stessa, perché, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento molte utopie si sono presentate come modelli socio-politici universalmente applicabili e quindi esportabili. Parlare di ‘prospettiva globale’, intesa come sinonimo di ‘visone universale’ immobilizza l’utopia, perché presuppone un atteggiamento omogeneizzante ed omologante. L’utopia è intrinsecamente “situata”, nasce da una specifica situazione storica che si vuole criticare e dunque modificare; per questo essa si pone come un modello, perché parte dal presente per andare oltre. Studiare le diverse tradizioni utopiche occidentali diventa tanto più importante quanto più fortemente si avverte la necessità di contrapporre modelli alternativi a quello americano, presentato come libertario, più democratico e dunque più civilizzato, e di immaginare una ‘nuova’ Europa come un progetto utopico che tragga forza da un laboratorio di idee. Durante il Novecento il concetto di utopia come paradigma è stato sottoposto ad una profonda revisione. Marc Bloch e Walter Benjamin hanno dimostrato che utopia e utopismo non possono essere disgiunti. Se l’utopia rischia di rimanere al di fuori del tempo storico, l’utopismo tenta di superarne i limiti perché recupera la storia attraverso la memoria. Comprendere che fra passato e presente c’è discontinuità, non linearità, consente di assumere un atteggiamento critico verso ciò che è stato e ciò che è, e di acquisire una capacità attiva nei confronti del futuro. In questo senso l’utopismo non è regressivo, consolatorio o nostalgico, ma possiede una forza critica propulsiva. Le ultime decadi del Novecento e i primi anni del Duemila, segnati dalla crisi delle ideologie comuniste e da guerre nazionalistiche, hanno obbligato gli studiosi a interrogarsi sulla frattura fra ciò che è e ciò che potrebbe/dovrebbe essere e sulla possibilità dell’utopia di rinnovarsi attraverso la storia.I documenti in SFERA sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.