La normativa sul trattamento dei dati personali, dapprima con la legge 31 dicembre 1996, n. 575 e poi con il più articolato d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, consegna all’interprete nuove categorie semantiche e concettuali che impongono di rileggere, alla loro luce, l’intera disciplina del procedimento penale. Dal recente statuto della privacy, difatti, affiora una serie di situazioni soggettive meritevoli di tutela, ma potenzialmente contrastanti con le esigenze di accertamento dei reati, di cui l’ordinamento processuale trascura di tener conto. La necessità di sondare le interrelazioni tra le due fonti sorge in particolare dalla natura «fondamentale» che il testo unico del 2003 assegna, in apertura, al diritto alla protezione dei dati personali, consacrandone l’autonomia rispetto a quelli alla riservatezza e all’identità personale. Il perimetro della nuova area di tutela emerge in tutta la sua ampiezza dalle precisazioni successive, ai sensi delle quali il «dato personale» si identifica con ogni informazione riconducibile ad un soggetto determinato, mentre il «trattamento» consiste in ogni operazione di raccolta, organizzazione, gestione e utilizzo di tale materiale. Definizioni, queste, capaci di attrarre nella propria orbita una gamma estremamente ricca di situazioni. Il nuovo diritto, che il legislatore espressamente ascrive tra quelli di rango fondamentale, aspira così ad abbracciare qualunque tipologia di informazioni relative a persone e tutti i possibili modi di trattarle. Salvo poi subire, nell’articolata disciplina che si dipana da quelle dichiarazioni d’apertura, delle compressioni anche piuttosto consistenti, allorquando la sua tutela si scontri con altre esigenze primarie, tra le quali campeggiano quelle di giustizia (artt. 46 ss.) e di polizia (artt. 53 ss.). Applicando alla disciplina processuale le definizioni coniate dal legislatore del 2003, risulta allora evidente come l’accertamento penale, per sua natura alimentato dalla «raccolta», dalla «selezione», dall’«interconnessione» e dal «raffronto» di informazioni relative a persone identificate o identificabili, sia da considerare un ingranaggio tutto volto al trattamento di dati personali. Del resto, proprio dei modi di reperire informazioni, quasi sempre aventi carattere «personale», si occupa buona parte del codice di procedura, specie nelle parti – cruciali – in cui vengono regolamentati l’espletamento delle indagini e l’acquisizione delle prove. L’analisi dei rapporti tra accertamento penale ed esigenze di riservatezza, sinora, è stata prevalentemente affrontata guardando il processo come oggetto di informazione, ossia come evento suscettibile di attrarre la costante attenzione dei media. Ben diversa è invece la prospettiva del processo quale recettore di informazioni: in quest’ottica, l’ordinamento processuale sembra disinteressi pressoché completamente delle esigenze di riserbo; l’indagine penalistica, osservata da questo angolo visuale, si configura come una continua violazione del diritto alla riservatezza. E tuttavia, se al diritto all’autodeterminazione informativa – come lascia intendere il codice della privacy – viene riconosciuto rango fondamentale, si rende necessario vagliare la compatibilità degli equilibri sommariamente disegnati dal legislatore del 2003 con i precetti costituzionali che si assumono coinvolti; e soprattutto sondare se l’ascendenza sovraordinata del diritto in parola non imponga dei ritocchi alla normativa processuale, semmai preceduti dal ricorso, già in via interpretativa, alla categoria delle prove incostituzionali. SOMMARIO: 1. Il procedimento penale come «trattamento» di «dati personali». – 2. La ricerca di un fondamento costituzionale per il diritto all’autodeterminazione informativa. Il richiamo all’art. 2 Cost. come «clausola aperta». – 3. La lettura “in negativo” dell’art. 21 Cost. – 4. Il ricorso alle disposizioni sulla libertà personale, di domicilio e di corrispondenza.

Autodeterminazione informativa e processo penale: le coordinate costituzionali

CARNEVALE, Stefania
2007

Abstract

La normativa sul trattamento dei dati personali, dapprima con la legge 31 dicembre 1996, n. 575 e poi con il più articolato d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, consegna all’interprete nuove categorie semantiche e concettuali che impongono di rileggere, alla loro luce, l’intera disciplina del procedimento penale. Dal recente statuto della privacy, difatti, affiora una serie di situazioni soggettive meritevoli di tutela, ma potenzialmente contrastanti con le esigenze di accertamento dei reati, di cui l’ordinamento processuale trascura di tener conto. La necessità di sondare le interrelazioni tra le due fonti sorge in particolare dalla natura «fondamentale» che il testo unico del 2003 assegna, in apertura, al diritto alla protezione dei dati personali, consacrandone l’autonomia rispetto a quelli alla riservatezza e all’identità personale. Il perimetro della nuova area di tutela emerge in tutta la sua ampiezza dalle precisazioni successive, ai sensi delle quali il «dato personale» si identifica con ogni informazione riconducibile ad un soggetto determinato, mentre il «trattamento» consiste in ogni operazione di raccolta, organizzazione, gestione e utilizzo di tale materiale. Definizioni, queste, capaci di attrarre nella propria orbita una gamma estremamente ricca di situazioni. Il nuovo diritto, che il legislatore espressamente ascrive tra quelli di rango fondamentale, aspira così ad abbracciare qualunque tipologia di informazioni relative a persone e tutti i possibili modi di trattarle. Salvo poi subire, nell’articolata disciplina che si dipana da quelle dichiarazioni d’apertura, delle compressioni anche piuttosto consistenti, allorquando la sua tutela si scontri con altre esigenze primarie, tra le quali campeggiano quelle di giustizia (artt. 46 ss.) e di polizia (artt. 53 ss.). Applicando alla disciplina processuale le definizioni coniate dal legislatore del 2003, risulta allora evidente come l’accertamento penale, per sua natura alimentato dalla «raccolta», dalla «selezione», dall’«interconnessione» e dal «raffronto» di informazioni relative a persone identificate o identificabili, sia da considerare un ingranaggio tutto volto al trattamento di dati personali. Del resto, proprio dei modi di reperire informazioni, quasi sempre aventi carattere «personale», si occupa buona parte del codice di procedura, specie nelle parti – cruciali – in cui vengono regolamentati l’espletamento delle indagini e l’acquisizione delle prove. L’analisi dei rapporti tra accertamento penale ed esigenze di riservatezza, sinora, è stata prevalentemente affrontata guardando il processo come oggetto di informazione, ossia come evento suscettibile di attrarre la costante attenzione dei media. Ben diversa è invece la prospettiva del processo quale recettore di informazioni: in quest’ottica, l’ordinamento processuale sembra disinteressi pressoché completamente delle esigenze di riserbo; l’indagine penalistica, osservata da questo angolo visuale, si configura come una continua violazione del diritto alla riservatezza. E tuttavia, se al diritto all’autodeterminazione informativa – come lascia intendere il codice della privacy – viene riconosciuto rango fondamentale, si rende necessario vagliare la compatibilità degli equilibri sommariamente disegnati dal legislatore del 2003 con i precetti costituzionali che si assumono coinvolti; e soprattutto sondare se l’ascendenza sovraordinata del diritto in parola non imponga dei ritocchi alla normativa processuale, semmai preceduti dal ricorso, già in via interpretativa, alla categoria delle prove incostituzionali. SOMMARIO: 1. Il procedimento penale come «trattamento» di «dati personali». – 2. La ricerca di un fondamento costituzionale per il diritto all’autodeterminazione informativa. Il richiamo all’art. 2 Cost. come «clausola aperta». – 3. La lettura “in negativo” dell’art. 21 Cost. – 4. Il ricorso alle disposizioni sulla libertà personale, di domicilio e di corrispondenza.
2007
9788854810709
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11392/497260
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