Il mercato del “senza glutine” è un segmento in continua espansione. I prodotti gluten free si stanno rivelando attrattivi anche per un pubblico non celiaco, che (spesso impropriamente) attribuisce a tali alimenti proprietà salutistiche generali. La conseguenza è la tendenza di sempre più operatori a fare largo uso della dicitura “senza glutine”, a scopo di marketing, anche su prodotti non specificamente formulati (sostituendo tradizionali ingredienti che contengono glutine) per prevenirlo, eliminarlo o ridurlo. L’uso del claim su alimenti “comuni”, quando essi sono “naturalmente privi” di glutine, rischia tuttavia di violare le “pratiche leali di informazione” (specialmente l’art. 7, par. 1, lett. c, del reg. UE n. 1169/2011) o altri principi in tema di informazioni volontarie: per evitare ciò, la previsione del reg. UE n. 828/2014 secondo cui anche questi ultimi alimenti (non specificamente preparati per i celiaci) dovrebbero poter essere etichettati come “senza glutine”, rischia di restare inapplicabile in concreto. L’articolo tenta, perciò, di sondare quali siano le residue possibilità di legittimo utilizzo del claim “senza glutine” anche sui prodotti “comuni”, siano essi alimenti in cui la presenza di glutine potrebbe derivare dall’uso opzionale di ingredienti non essenziali, ma diffusi nello specifico settore produttivo in quanto legittimi (es. additivi o aromi apportatori di glutine), sicché “senza glutine” implica la garanzia di non avere utilizzato tali ingredienti; siano essi alimenti naturalmente privi, in cui il glutine potrebbe astrattamente entrare a causa di “contaminazioni incrociate”, non facilmente intercettabili da corrette procedure HACCP di routine (cosicché un eventuale claim “senza glutine” potrebbe avere un senso conforme alle pratiche leali di informazione, solo ove fosse collegato all’adozione di specifici protocolli di controllo e di gestione dell’alimento, del processo produttivo e delle materie prime).

“Senza glutine”: un claim per tutte le stagioni?

P. Borghi
Primo
2022

Abstract

Il mercato del “senza glutine” è un segmento in continua espansione. I prodotti gluten free si stanno rivelando attrattivi anche per un pubblico non celiaco, che (spesso impropriamente) attribuisce a tali alimenti proprietà salutistiche generali. La conseguenza è la tendenza di sempre più operatori a fare largo uso della dicitura “senza glutine”, a scopo di marketing, anche su prodotti non specificamente formulati (sostituendo tradizionali ingredienti che contengono glutine) per prevenirlo, eliminarlo o ridurlo. L’uso del claim su alimenti “comuni”, quando essi sono “naturalmente privi” di glutine, rischia tuttavia di violare le “pratiche leali di informazione” (specialmente l’art. 7, par. 1, lett. c, del reg. UE n. 1169/2011) o altri principi in tema di informazioni volontarie: per evitare ciò, la previsione del reg. UE n. 828/2014 secondo cui anche questi ultimi alimenti (non specificamente preparati per i celiaci) dovrebbero poter essere etichettati come “senza glutine”, rischia di restare inapplicabile in concreto. L’articolo tenta, perciò, di sondare quali siano le residue possibilità di legittimo utilizzo del claim “senza glutine” anche sui prodotti “comuni”, siano essi alimenti in cui la presenza di glutine potrebbe derivare dall’uso opzionale di ingredienti non essenziali, ma diffusi nello specifico settore produttivo in quanto legittimi (es. additivi o aromi apportatori di glutine), sicché “senza glutine” implica la garanzia di non avere utilizzato tali ingredienti; siano essi alimenti naturalmente privi, in cui il glutine potrebbe astrattamente entrare a causa di “contaminazioni incrociate”, non facilmente intercettabili da corrette procedure HACCP di routine (cosicché un eventuale claim “senza glutine” potrebbe avere un senso conforme alle pratiche leali di informazione, solo ove fosse collegato all’adozione di specifici protocolli di controllo e di gestione dell’alimento, del processo produttivo e delle materie prime).
2022
Borghi, P.
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