La relazione tra architettura e globalizzazione affonda le proprie origini nel passato, pertanto si proverà a delineare un percorso che, partendo dalla metà degli anni settanta, arriva fino al postmoderno e al contemporaneo, e ha come premessa nel periodo moderno in architettura, la mostra, Modern Architecture. International Exhibition tenutasi nel 1932 al MoMA di New York curata da Philip Johnson e Henry-Russell Hitchcock Proprio a partire da quegli anni, epoca di grandi trasformazioni economiche, politiche, tecnologiche e sociali, si è andato diffondendo quel fenomeno che potremmo definire come “connettività globale” che ha prodotto una impressionante accelerazione di scambi e interdipendenze globali. Tale fenomeno di colonizzazione, materiale e immateriale, oggi viene diffusamente chiamato globalizzazione, e si presenta attraverso due caratteristiche peculiari: la velocità dello sviluppo legata alla diffusione dei sistemi digitali con conseguente amplificazione del fenomeno della mobilità, declinata in infinite possibilità, e l’estensione del sistema economico-finanziario basato sul consumo. Ciò implica una condizione per l’architettura di frammentazione, intesa come valorizzazione delle differenze, multiculturali e multiformi. I linguaggi con cui si esprimono oggi i progetti sono improntati su lessici architettonici a differenti registri, alcuni propri di portati locali, altri appartenenti a sistemi plastici di creazione della forma, altri improntati ad una spettacolarizzazione tecnologica e strutturale. A cavallo del nuovo secolo, con una accelerazione senza precedenti del sistema lineare economico legato al capitalismo e al consumo dovuta anche al propulsore digitale, gli edifici assumono una iconicità autoreferenziale. Si assiste alla produzione di edifici che giustappongono una pelle che declina una spiccata esperienza sensoriale e visiva. Nella contemporaneità, con il cambiamento di paradigma dovuto all’avvento del sistema circolare, diventa necessario recuperare, e, non sostituire (sarebbe infatti un errore storico imperdonabile, oltre che una forma di ottusa regressione, demonizzare la diffusione e l’utilizzo delle tecnologie), le connessioni reali tra le persone nei luoghi in cui vivono, riportando alla dimensione locale un valore identitario ormai smarrito. È proprio la riappropriazione del patrimonio preesistente, la memoria collettiva che i luoghi sono in grado di rappresentare, la chiave per traslare la ricerca del senso di appartenenza di una comunità dal livello virtuale a quello reale. È quello spazio in cui lo spazio e il tempo, seppur compressi, riescono ad attivare rapporti radicati e orientati. È sospeso fra il locale e il globale, tra la specificità e il generale, fra l’identitario e lo straniamento, tra l’omologazione e la totalizzazione, è uno spazio che resiste alla compressione spaziale e temporale. Queste nuovo senso del vivere la società in comunità, sta già facendo intravedere una possibile declinazione al progetto di architettura, in grado di comprendere e ricomprendere queste istanze che si traducono con un nuovo approccio al progetto di natura circolare. Ai temi legati all’iperconsumo si sostituiscono quelli legati alla sostenibilità, allo spreco, alle disuguaglianze, alla migrazione, all’insicurezza, all’inquinamento. Parallelamente, soprattutto in quei luoghi fortemente antropizzati come l’Italia, il passaggio dalla Comunità virtuale a quella reale, definisce un nuovo approccio al progetto a partire proprio dagli architetti Italiani, i quali reinterpretando e facendo propri una serie di elementi identitari desunti dal lessico del moderno italiano, propongono nei loro progetti un’architettura che partendo dalla città, ne interpreta i caratteri peculiari attraverso filtri personali. Un linguaggio italiano che affonda le proprie radici a partire dagli anni trenta inserendosi all’l’interno del più vasto panorama internazionale con una propria interpretazione che ne ha fatto sistema comune di mediazione tra il poetico e una visione “misurata”. Riprova ne sono i recenti padiglioni nazionali della Biennale di Venezia curati da Franco Purini, Francesco Garofalo, Luca Molinari e Cino Zucchi, in cui risulta evidente questo rapporto tra la sobrietà espressiva sia nell’impianto che nella stereometria delle forme degli alzati, e l’interpretazione di una modernità “all’italiana”, in cui il rapporto con la città si esplica attraverso una “congruenza delle parti con il tutto”
Dalla “globalizzazione” della città alla città “glocalizzata”. sovrascrivere le architetture e gli spazi di “scarto”
alessandro gaiani
2019
Abstract
La relazione tra architettura e globalizzazione affonda le proprie origini nel passato, pertanto si proverà a delineare un percorso che, partendo dalla metà degli anni settanta, arriva fino al postmoderno e al contemporaneo, e ha come premessa nel periodo moderno in architettura, la mostra, Modern Architecture. International Exhibition tenutasi nel 1932 al MoMA di New York curata da Philip Johnson e Henry-Russell Hitchcock Proprio a partire da quegli anni, epoca di grandi trasformazioni economiche, politiche, tecnologiche e sociali, si è andato diffondendo quel fenomeno che potremmo definire come “connettività globale” che ha prodotto una impressionante accelerazione di scambi e interdipendenze globali. Tale fenomeno di colonizzazione, materiale e immateriale, oggi viene diffusamente chiamato globalizzazione, e si presenta attraverso due caratteristiche peculiari: la velocità dello sviluppo legata alla diffusione dei sistemi digitali con conseguente amplificazione del fenomeno della mobilità, declinata in infinite possibilità, e l’estensione del sistema economico-finanziario basato sul consumo. Ciò implica una condizione per l’architettura di frammentazione, intesa come valorizzazione delle differenze, multiculturali e multiformi. I linguaggi con cui si esprimono oggi i progetti sono improntati su lessici architettonici a differenti registri, alcuni propri di portati locali, altri appartenenti a sistemi plastici di creazione della forma, altri improntati ad una spettacolarizzazione tecnologica e strutturale. A cavallo del nuovo secolo, con una accelerazione senza precedenti del sistema lineare economico legato al capitalismo e al consumo dovuta anche al propulsore digitale, gli edifici assumono una iconicità autoreferenziale. Si assiste alla produzione di edifici che giustappongono una pelle che declina una spiccata esperienza sensoriale e visiva. Nella contemporaneità, con il cambiamento di paradigma dovuto all’avvento del sistema circolare, diventa necessario recuperare, e, non sostituire (sarebbe infatti un errore storico imperdonabile, oltre che una forma di ottusa regressione, demonizzare la diffusione e l’utilizzo delle tecnologie), le connessioni reali tra le persone nei luoghi in cui vivono, riportando alla dimensione locale un valore identitario ormai smarrito. È proprio la riappropriazione del patrimonio preesistente, la memoria collettiva che i luoghi sono in grado di rappresentare, la chiave per traslare la ricerca del senso di appartenenza di una comunità dal livello virtuale a quello reale. È quello spazio in cui lo spazio e il tempo, seppur compressi, riescono ad attivare rapporti radicati e orientati. È sospeso fra il locale e il globale, tra la specificità e il generale, fra l’identitario e lo straniamento, tra l’omologazione e la totalizzazione, è uno spazio che resiste alla compressione spaziale e temporale. Queste nuovo senso del vivere la società in comunità, sta già facendo intravedere una possibile declinazione al progetto di architettura, in grado di comprendere e ricomprendere queste istanze che si traducono con un nuovo approccio al progetto di natura circolare. Ai temi legati all’iperconsumo si sostituiscono quelli legati alla sostenibilità, allo spreco, alle disuguaglianze, alla migrazione, all’insicurezza, all’inquinamento. Parallelamente, soprattutto in quei luoghi fortemente antropizzati come l’Italia, il passaggio dalla Comunità virtuale a quella reale, definisce un nuovo approccio al progetto a partire proprio dagli architetti Italiani, i quali reinterpretando e facendo propri una serie di elementi identitari desunti dal lessico del moderno italiano, propongono nei loro progetti un’architettura che partendo dalla città, ne interpreta i caratteri peculiari attraverso filtri personali. Un linguaggio italiano che affonda le proprie radici a partire dagli anni trenta inserendosi all’l’interno del più vasto panorama internazionale con una propria interpretazione che ne ha fatto sistema comune di mediazione tra il poetico e una visione “misurata”. Riprova ne sono i recenti padiglioni nazionali della Biennale di Venezia curati da Franco Purini, Francesco Garofalo, Luca Molinari e Cino Zucchi, in cui risulta evidente questo rapporto tra la sobrietà espressiva sia nell’impianto che nella stereometria delle forme degli alzati, e l’interpretazione di una modernità “all’italiana”, in cui il rapporto con la città si esplica attraverso una “congruenza delle parti con il tutto”File | Dimensione | Formato | |
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