I siti archeologici possono restituire una notevole quantità di reperti biologici, costituiti prevalentemente da resti vegetali, faunistici e antropologici, di dimensioni macroscopiche e microscopiche, che divengono oggetto di studio di diverse discipline specialistiche. In particolare, l’analisi dei reperti vegetali è affidata all’archeobotanica, che raggruppa discipline quali: l’archeocarpologia, che si occupa dello studio dei semi e dei frutti delle piante coltivate e spontanee, l’archeoxilo-antracologia, che studia i legni e i carboni, con particolare attenzione ai manufatti e ai materiali lignei utilizzati dall’uomo, l’archeopalinologia, che prende in esame pollini, spore ed altri sporomorfi microscopici inglobati negli strati archeologici. L’indagine archeobotanica ricostruisce quindi un’immagine dettagliata della vegetazione, fornendo utili indicazioni sul rapporto uomo-ambiente. L’influenza antropica sul manto vegetale si accentua nel Neolitico in seguito all’incendio del bosco da parte dell’uomo per fare posto a pascoli e a coltivazioni. Le attività umane sono favorite da un clima sempre più mite con il raggiungimento dell’“optimum climatico” fra il 5.000 e il 3.000 a.C. Con il passaggio all’età del Bronzo si assiste ad un forte incremento della pressione antropica, caratterizzata da una elevata deforestazione, dovuta sia ad un aumento consistente del fabbisogno di legname sia ad un intensificarsi delle attività agricole. In particolare, le colture sembrano basarsi sui frumenti (grano tenero, grano compatto, farro, piccolo farro, ecc.), sulla segale, orzo, miglio, panico e sulla fava e pisello. La raccolta continua a giocare un ruolo molto importante nell’integrazione alimentare, come documentano i ritrovamenti di reperti di corniolo, more, mele, pruni, sambuco, uva, ghiande, nocciole, ecc. In questo periodo si verifica una sensibile regressione del clima caldo che caratterizzava la fase precedente. A partire dall’età del Ferro si assiste a una progressiva rioccupazione del territorio, che raggiunge il suo acme durante il periodo etrusco (VI-IV secolo a.C.). La nuova situazione si riflette anche sull’aspetto del paesaggio sia per gli interventi di deforestazione, necessari per i nuovi insediamenti, sia per la creazione di un più razionale sistema di opere idrauliche, indispensabili per trasformare ampi lembi del territorio in fertili campi coltivati. Oltre alla coltivazione dei cereali, dei legumi e delle specie da frutto, ricordiamo la vite maritata a tutore vivo, la cosiddetta piantata, forma di allevamento rimasta pressoché invariata fino all’età moderna. Il paesaggio in età celtica, già fortemente aperto e sensibilmente antropizzato, è tipicamente agricolo, con campi di cereali, legumi, canapa, lino, alternati a piantate, prati e pascoli. Il contesto vegetazionale suggerisce durante l’età del ferro una fase fredda e umida, caratterizzata da numerose oscillazioni climatiche. Tra il III e il II secolo a.C. i Romani occupano il territorio padano, già fortemente deforestato, e vi instaurano un’attività agricola più intensiva e diversificata rispetto al periodo celtico, grazie anche alle migliorate condizioni climatiche che permettono la coltivazione di nuove specie quali l’olivo. Con il passaggio dall’età repubblicana a quella imperiale si ha una definitiva e sistematica occupazione del territorio, con la presenza di un’agricoltura specializzata, che necessita di edifici rustici e rurali in cui trasformare e immagazzinare i prodotti, oltre ad ospitare gli addetti al lavoro dei campi. A partire dalla fine del II secolo d.C. compaiono i segni di un regresso dell’organizzazione agricola, che si accentua nei secoli successivi. Tutto ciò è dovuto ad una progressiva crisi politico-economica che determina la radicale trasformazione della gestione delle campagne e l’affermarsi del latifondo. Anche le condizioni climatiche a partire dal IV secolo d.C. subiscono un deterioramento con alluvioni e impaludamenti, che si manifesteranno con tutta la loro violenza durante il periodo Tardo Antico.Nel periodo Tardo Antico si ha un progressivo abbandono del territorio dovuto all’aggravarsi della crisi politico-economica che caratterizza la fine dell’Impero Romano. Ciò determina il mancato governo delle acque che, abbinato ad un forte deterioramento climatico caratterizzato da periodi di piogge intense e da un abbassamento della temperatura, causa numerose rotte fluviali e alluvioni. L’incuria del paesaggio e il peggioramento del clima portano all’impaludamento di vaste aree del territorio padano alternato a boschi igrofili e querceti mesoigrofili. Tali cause portano ad un forte regresso dell’attività agricola, che risulta essere meno specializzata rispetto a quella praticata nel periodo romano, con una produzione essenzialmente rivolta all’autoconsumo. Le migliorate condizioni climatiche che si registrano durante l’alto Medioevo a partire dal 750-850 d.C. portano ad una graduale ripresa del controllo antropico sull’ambiente, caratterizzato da un’intensa attività di bonifica delle vaste aree paludose e dall’abbattimento del bosco. Riprendono lentamente le attività agricole, si intensificano le coltivazioni dei cereali (frumenti, segale, orzo, avena, miglio, panico), delle leguminose, soprattutto della fava e si diffondono colture specializzate come la vite e l’olivo. Durante il basso Medioevo, nonostante un progressivo deterioramento climatico e l’insorgere di molteplici epidemie in diverse zone della Pianura Padana, permane un’agricoltura molto attiva. Tra la fine del XIV e la prima metà del XV secolo una ristrutturazione agraria modifica l’assetto del paesaggio emiliano trasformandolo in una vasta area coltivata alternata a piantate. Questo nuovo assetto territoriale favorisce una ripresa dell’agricoltura, che caratterizzerà tutta l’età rinascimentale.

L’evoluzione del paesaggio.

MARCHESINI, Marco;MARVELLI, SILVIA;
1998

Abstract

I siti archeologici possono restituire una notevole quantità di reperti biologici, costituiti prevalentemente da resti vegetali, faunistici e antropologici, di dimensioni macroscopiche e microscopiche, che divengono oggetto di studio di diverse discipline specialistiche. In particolare, l’analisi dei reperti vegetali è affidata all’archeobotanica, che raggruppa discipline quali: l’archeocarpologia, che si occupa dello studio dei semi e dei frutti delle piante coltivate e spontanee, l’archeoxilo-antracologia, che studia i legni e i carboni, con particolare attenzione ai manufatti e ai materiali lignei utilizzati dall’uomo, l’archeopalinologia, che prende in esame pollini, spore ed altri sporomorfi microscopici inglobati negli strati archeologici. L’indagine archeobotanica ricostruisce quindi un’immagine dettagliata della vegetazione, fornendo utili indicazioni sul rapporto uomo-ambiente. L’influenza antropica sul manto vegetale si accentua nel Neolitico in seguito all’incendio del bosco da parte dell’uomo per fare posto a pascoli e a coltivazioni. Le attività umane sono favorite da un clima sempre più mite con il raggiungimento dell’“optimum climatico” fra il 5.000 e il 3.000 a.C. Con il passaggio all’età del Bronzo si assiste ad un forte incremento della pressione antropica, caratterizzata da una elevata deforestazione, dovuta sia ad un aumento consistente del fabbisogno di legname sia ad un intensificarsi delle attività agricole. In particolare, le colture sembrano basarsi sui frumenti (grano tenero, grano compatto, farro, piccolo farro, ecc.), sulla segale, orzo, miglio, panico e sulla fava e pisello. La raccolta continua a giocare un ruolo molto importante nell’integrazione alimentare, come documentano i ritrovamenti di reperti di corniolo, more, mele, pruni, sambuco, uva, ghiande, nocciole, ecc. In questo periodo si verifica una sensibile regressione del clima caldo che caratterizzava la fase precedente. A partire dall’età del Ferro si assiste a una progressiva rioccupazione del territorio, che raggiunge il suo acme durante il periodo etrusco (VI-IV secolo a.C.). La nuova situazione si riflette anche sull’aspetto del paesaggio sia per gli interventi di deforestazione, necessari per i nuovi insediamenti, sia per la creazione di un più razionale sistema di opere idrauliche, indispensabili per trasformare ampi lembi del territorio in fertili campi coltivati. Oltre alla coltivazione dei cereali, dei legumi e delle specie da frutto, ricordiamo la vite maritata a tutore vivo, la cosiddetta piantata, forma di allevamento rimasta pressoché invariata fino all’età moderna. Il paesaggio in età celtica, già fortemente aperto e sensibilmente antropizzato, è tipicamente agricolo, con campi di cereali, legumi, canapa, lino, alternati a piantate, prati e pascoli. Il contesto vegetazionale suggerisce durante l’età del ferro una fase fredda e umida, caratterizzata da numerose oscillazioni climatiche. Tra il III e il II secolo a.C. i Romani occupano il territorio padano, già fortemente deforestato, e vi instaurano un’attività agricola più intensiva e diversificata rispetto al periodo celtico, grazie anche alle migliorate condizioni climatiche che permettono la coltivazione di nuove specie quali l’olivo. Con il passaggio dall’età repubblicana a quella imperiale si ha una definitiva e sistematica occupazione del territorio, con la presenza di un’agricoltura specializzata, che necessita di edifici rustici e rurali in cui trasformare e immagazzinare i prodotti, oltre ad ospitare gli addetti al lavoro dei campi. A partire dalla fine del II secolo d.C. compaiono i segni di un regresso dell’organizzazione agricola, che si accentua nei secoli successivi. Tutto ciò è dovuto ad una progressiva crisi politico-economica che determina la radicale trasformazione della gestione delle campagne e l’affermarsi del latifondo. Anche le condizioni climatiche a partire dal IV secolo d.C. subiscono un deterioramento con alluvioni e impaludamenti, che si manifesteranno con tutta la loro violenza durante il periodo Tardo Antico.Nel periodo Tardo Antico si ha un progressivo abbandono del territorio dovuto all’aggravarsi della crisi politico-economica che caratterizza la fine dell’Impero Romano. Ciò determina il mancato governo delle acque che, abbinato ad un forte deterioramento climatico caratterizzato da periodi di piogge intense e da un abbassamento della temperatura, causa numerose rotte fluviali e alluvioni. L’incuria del paesaggio e il peggioramento del clima portano all’impaludamento di vaste aree del territorio padano alternato a boschi igrofili e querceti mesoigrofili. Tali cause portano ad un forte regresso dell’attività agricola, che risulta essere meno specializzata rispetto a quella praticata nel periodo romano, con una produzione essenzialmente rivolta all’autoconsumo. Le migliorate condizioni climatiche che si registrano durante l’alto Medioevo a partire dal 750-850 d.C. portano ad una graduale ripresa del controllo antropico sull’ambiente, caratterizzato da un’intensa attività di bonifica delle vaste aree paludose e dall’abbattimento del bosco. Riprendono lentamente le attività agricole, si intensificano le coltivazioni dei cereali (frumenti, segale, orzo, avena, miglio, panico), delle leguminose, soprattutto della fava e si diffondono colture specializzate come la vite e l’olivo. Durante il basso Medioevo, nonostante un progressivo deterioramento climatico e l’insorgere di molteplici epidemie in diverse zone della Pianura Padana, permane un’agricoltura molto attiva. Tra la fine del XIV e la prima metà del XV secolo una ristrutturazione agraria modifica l’assetto del paesaggio emiliano trasformandolo in una vasta area coltivata alternata a piantate. Questo nuovo assetto territoriale favorisce una ripresa dell’agricoltura, che caratterizzerà tutta l’età rinascimentale.
1998
pianura bolognese; analisi archeobotaniche; paesaggio vegetale; ricostruzione ambientale; archeologia
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