L’articolo intende proporre una analisi critica della legge comunitaria 2010. con riferimento all'iter procedurale e alla struttura normativa, volta a porne in luce gli elementi di tensione, da un lato, con la corretta ottemperanza dello Stato italiano agli obblighi assunti in sede europea, dall’altro, con le peculiari esigenze costituzionali connesse alla introduzione nel nostro ordinamento di disposizioni penali in attuazione di atti normativi dell’UE. La prima parte è dedicata alla ricostruzione dell’abnorme vicenda parlamentare della legge comunitaria 2010, nel cui ambito si è profilato il rischio di una un respingimento della stessa a seguito del voto negativo sull’art. 1 : una sorta di “morte apparente” da cui il provvedimento è potuto esser salvato al prezzo di una riscrittura che, stravolgendo l’impianto originario del disegno di legge, ne ha completamente sacrificato le componenti innovative di “parte generale”, mutuandola, con inedita forma di rinvio, dalla comunitaria 2009. Le cause ultime della singolare vicenda vanno individuate, al di là della contingente dialettica politica, in costanti che hanno sempre accompagnato l’emanazione delle leggi comunitarie e che nel caso in esame han fornito un riscontro di eccezionale gravità della propria natura patologica. Ci si riferisce, sul piano del contenuto, al fenomeno dell’attuazione apparente del diritto europeo, per cui la l. comunitaria viene sfruttata come canale privilegiato per l’inserimento di disposizioni dotate di un legame labile o pretestuoso con il diritto dell’Unione; sul piano della struttura, alla inattualità della delega al Governo per la trasposizione delle direttive, il cui oggetto viene fondamentalmente definito mediante il rinvio al contenuto degli stessi atti da trasporre, con la giustapposizione di stereotipi (e necessariamente vaghi) principi generali di delega e con l’aggiunta solo eventuale di criteri specifici per l’esercizio della stessa rispetto a singoli atti. Proprio con riferimento all’assetto strutturale va stigmatizzata la non adeguatezza della prassi delle leggi comunitarie ad assicurare l’armonia con il principio di riserva di legge ex art. 25 Cost. della normativa penale prodotta su impulso del diritto dell’Unione. Difatti le loro tipiche tecniche redazionali comportano il conferimento al Governo di una delega ampiamente “in bianco”, nel quantum e nell’an della tutela, laddove, nella materia sanzionatoria, il principio in discorso esigerebbe un canone stringente di chiarezza e completezza dei principi di delega. La legge comunitaria 2010 costituisce un esemplare banco di prova di tale perdurante criticità: essa, nella sua versione definitiva, si caratterizza per la riproduzione di principi generali poco pregnanti, nonché dell’attribuzione all’Esecutivo di un’ampia facoltà di apprezzamento circa il ricorso stesso allo strumento penale, ma soprattutto per la totale assenza di specifici criteri di delega in tale ambito, persino a fronte di direttive europee recanti obblighi espliciti di incriminazione quali la direttiva 2009/52/CE. Il Parlamento rinuncia, in tal modo, a imporre un proprio orientamento in ordine alla definizione delle fattispecie incriminatrici finali, anche quando gli sarebbe possibile effettuare scelte significative nella cornice di discrezionalità lasciata agli Stati membri dall’atto europeo da trasporre. Ne deriva la constatazione che la necessaria matrice rappresentativa delle scelte di politica criminale risulta messa a repentaglio, in concreto, più che da una presunta intrinseca ademocraticità degli input europei di penalizzazione (alla cui formazione, peraltro, il Parlamento può concorrere con appositi strumenti procedurali), dalla sostanziale abdicazione del Legislatore italiano alle proprie prerogative nella "fase discendente" del diritto europeo.

« Morte e trasfigurazione » di una legge comunitaria

COTTU, Enrico
2011

Abstract

L’articolo intende proporre una analisi critica della legge comunitaria 2010. con riferimento all'iter procedurale e alla struttura normativa, volta a porne in luce gli elementi di tensione, da un lato, con la corretta ottemperanza dello Stato italiano agli obblighi assunti in sede europea, dall’altro, con le peculiari esigenze costituzionali connesse alla introduzione nel nostro ordinamento di disposizioni penali in attuazione di atti normativi dell’UE. La prima parte è dedicata alla ricostruzione dell’abnorme vicenda parlamentare della legge comunitaria 2010, nel cui ambito si è profilato il rischio di una un respingimento della stessa a seguito del voto negativo sull’art. 1 : una sorta di “morte apparente” da cui il provvedimento è potuto esser salvato al prezzo di una riscrittura che, stravolgendo l’impianto originario del disegno di legge, ne ha completamente sacrificato le componenti innovative di “parte generale”, mutuandola, con inedita forma di rinvio, dalla comunitaria 2009. Le cause ultime della singolare vicenda vanno individuate, al di là della contingente dialettica politica, in costanti che hanno sempre accompagnato l’emanazione delle leggi comunitarie e che nel caso in esame han fornito un riscontro di eccezionale gravità della propria natura patologica. Ci si riferisce, sul piano del contenuto, al fenomeno dell’attuazione apparente del diritto europeo, per cui la l. comunitaria viene sfruttata come canale privilegiato per l’inserimento di disposizioni dotate di un legame labile o pretestuoso con il diritto dell’Unione; sul piano della struttura, alla inattualità della delega al Governo per la trasposizione delle direttive, il cui oggetto viene fondamentalmente definito mediante il rinvio al contenuto degli stessi atti da trasporre, con la giustapposizione di stereotipi (e necessariamente vaghi) principi generali di delega e con l’aggiunta solo eventuale di criteri specifici per l’esercizio della stessa rispetto a singoli atti. Proprio con riferimento all’assetto strutturale va stigmatizzata la non adeguatezza della prassi delle leggi comunitarie ad assicurare l’armonia con il principio di riserva di legge ex art. 25 Cost. della normativa penale prodotta su impulso del diritto dell’Unione. Difatti le loro tipiche tecniche redazionali comportano il conferimento al Governo di una delega ampiamente “in bianco”, nel quantum e nell’an della tutela, laddove, nella materia sanzionatoria, il principio in discorso esigerebbe un canone stringente di chiarezza e completezza dei principi di delega. La legge comunitaria 2010 costituisce un esemplare banco di prova di tale perdurante criticità: essa, nella sua versione definitiva, si caratterizza per la riproduzione di principi generali poco pregnanti, nonché dell’attribuzione all’Esecutivo di un’ampia facoltà di apprezzamento circa il ricorso stesso allo strumento penale, ma soprattutto per la totale assenza di specifici criteri di delega in tale ambito, persino a fronte di direttive europee recanti obblighi espliciti di incriminazione quali la direttiva 2009/52/CE. Il Parlamento rinuncia, in tal modo, a imporre un proprio orientamento in ordine alla definizione delle fattispecie incriminatrici finali, anche quando gli sarebbe possibile effettuare scelte significative nella cornice di discrezionalità lasciata agli Stati membri dall’atto europeo da trasporre. Ne deriva la constatazione che la necessaria matrice rappresentativa delle scelte di politica criminale risulta messa a repentaglio, in concreto, più che da una presunta intrinseca ademocraticità degli input europei di penalizzazione (alla cui formazione, peraltro, il Parlamento può concorrere con appositi strumenti procedurali), dalla sostanziale abdicazione del Legislatore italiano alle proprie prerogative nella "fase discendente" del diritto europeo.
2011
Cottu, Enrico
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11392/1685825
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