La parola, il termine, il suo significato, mi fanno riemergere alla memoria i contenuti della prima lezione di “Tecnologia dell’Architettura” sperimentata nella Facoltà di Firenze quasi trent’anni fa in una di quelle strane stanze ricavate lungo il corridoio che conduceva nell’improbabile quanto energivora “Aula Quadrilatero” riprodotta nel porticato superiore della sede brunelleschiana. Le frasi riverberavano, fin dalle prime affermazioni, un’aurea bellicosa contro qualcosa che doveva e doveva essere stato un nemico subdolo, attecchente, mutante. Un nemico della Qualità prima e (soprattutto) del Progetto poi. Un nemico, che, depositario di utilità e funzioni tipiche di un momento importante dello sviluppo industriale dell’edilizia (che chiamerei oggi con più coscienza storica pseudoindustriale), stava riproducendo se stesso in multiformi gradi di vincolo autolimitanti, che conducevano all’appiattimento del pensare e del fare. Quella era l’epoca d’oro (nella turris eburnea della formazione superiore) dell’appropriato e del progressivo ed era anche il momento in cui si cercava di dare significato operativo alle sperimentazioni di normative prestazionali, che partivano soprattutto dall’housing sociale. Ecco quindi il dilemma che si palesava sulle lavagne poco pulite dell’Università: conferire allo standard in Edilizia quanto in Architettura un ambito più finalizzato di applicazione per cercare di recuperare spazi e significati per il progetto tecnologico (e non solo) o continuare ad ottimizzare un processo che facilita uno sviluppo quantitativo del mercato ma con scarsa e ridotta intelligenza competitiva?In verità, non c’è nulla di difettoso. Lo standard è una norma, una regola, una modalità certa, imposta o verificata con protocolli e processi produttivi, che a caduta facilita le scelte delle materie prime, la realizzazione delle macchine di fabbricazione, lo stoccaggio, impone una specifica descrizione di capitolato, migliora il trasporto, fino all’arrivo in cantiere e alla semplificazione della messa in opera. Insomma, offre molte sicurezze. Operare con lo standard, applicare lo standard, rende semplice molte cose che si cosano disegnando e costruendo. Immediato, ad esempio, a come la progettazione di un organismo edilizio o di un alloggio si basi ancora su “standard” come le densità fondiarie e territoriali, la numerosità delle persone, le caratteristiche degli ambienti confinati, decidendo a priori la superficie orizzontale per dormire (da soli o in coppia) o per cucinare: un parametro non perfetto anche per gli abitanti di Flatlandia di Abbot! In altre parole citando Nicola Sinopoli: “comunque lo standard sta a significare un minimo valido in un determinato momento storico e per un determinato contesto (…) e nell’edilizia gli standard sono applicati sia agli aspetti progettuali (quantità di spazio interna degli alloggi) sia a quelli tecnologici o ambientali (…), in tutti i casi lo standard si esprime con dei numeri al di sotto o al di sopra dei quali non si può andare”. Provate ad immagine che cosa determina tutto questo ancora in Italia nel campo dello standard tipologico! E non è banale che proprio dalla scuola fiorentina, da quella scuola che, fondando un Dipartimento aveva scelto di chiamarlo allora “Processi e metodi della produzione edilizia”, un drappello di giovani ricercatori e altrettanto giovani professori, tentasse di far tornare un ragionamento al cuore del problema partendo dallo spazio e dalle sue multiformi funzioni, ragionando di prestazioni, requisiti ed esigenze. Un percorso complesso perché prevedeva che il progettista avesse prima di tutto “capacità di dialogo e volontà di collaborazione, consapevolezza che il proprio ruolo si realizza se e in quanto partecipa con tutti gli altri al processo della costruzione” (Zaffagnini).Nel vivere da studente quel periodo, ognuno di noi che era seduto tra i banchi viveva con dicotomia il salto di scala intellettuale e critico che si palesava di fronte ad ogni cambio di docente, quando un architetto “tecnologo” prendeva il posto di un architetto “compositivo”: sembrava un altro mondo. Anche perché la difesa del pensiero e delle idee avveniva soprattutto nei fatti, nelle azioni didattiche (lezioni, revisioni, contenuti e modalità d’esame) che registravano una coerenza quasi religiosa a quanto si voleva insegnare. Non tutti gli studenti comprendevano lo sforzo e molti erano insofferenti all’applicazione di un processo (logico e quindi fortemente formativo) che sembrava ai loro occhi solo sostituire uno standard con un altro, tanto era sistematico il desiderio e quindi l’azione di verifica di ogni fase: valutare e descrivere le funzioni e le esigenze, stimare le prestazioni, definire le categorie, quantificare e selezionare i componenti, ecc. Gli abitatori di quelle case erano utenti (e, ahimé, lo sarebbero stati per molto tempo ancora) che fluivano in un metabolismo del loro nucleo attraverso una flessibilità morfologica che coinvolgeva la tipologia dell’impianto edilizio ed ogni suo parte. Una finestra, un infisso, erano parti di un componente di “chiusura estera”, talmente ricchi di variazioni, potenziali espressivi e funzionali, che potevano non avere limiti di progettualità, straripando gli argini dello standard imposti dal mitico “legno d’abete della Val di Fiemme” del capitolato IACP, che aveva fatto la fortuna di un comprensorio di produzione industriale del legno nel Secondo Dopoguerra.Dopo quasi trent’anni sembra impossibile credere che certe cose siano accadute. Nell’attualità di un sana austerity, imposta da una crisi economica generata dall’inappropriato e dallo speculativo, ogni vero progettista spinge al massimo l’acceleratore dell’intelligenza e della creatività sulle richieste esigenziali di tutti i componenti e non c’è proprio nessuno che oggi metta in dubbio il significato dello standard (che nella normativa tecnica esprime il valore medio giudicato sufficiente a soddisfare una certa esigenza) e il valore di una normativa tecnica ambientale e tecnologica prestazionale e procedurale, più cosciente e responsabile per dare qualità al progetto architettonico.Adesso chiudo l’album dei ricordi. E ripenso al dialogo e alla dialettica consapevole che alcuni miei maestri mi hanno educato a rendere possibile, a facilitare, a trasmettere, e di come devo a loro molto di quello che sono.

Standard (uno sguardo nell'album dei ricordi)

BALZANI, Marcello
2009

Abstract

La parola, il termine, il suo significato, mi fanno riemergere alla memoria i contenuti della prima lezione di “Tecnologia dell’Architettura” sperimentata nella Facoltà di Firenze quasi trent’anni fa in una di quelle strane stanze ricavate lungo il corridoio che conduceva nell’improbabile quanto energivora “Aula Quadrilatero” riprodotta nel porticato superiore della sede brunelleschiana. Le frasi riverberavano, fin dalle prime affermazioni, un’aurea bellicosa contro qualcosa che doveva e doveva essere stato un nemico subdolo, attecchente, mutante. Un nemico della Qualità prima e (soprattutto) del Progetto poi. Un nemico, che, depositario di utilità e funzioni tipiche di un momento importante dello sviluppo industriale dell’edilizia (che chiamerei oggi con più coscienza storica pseudoindustriale), stava riproducendo se stesso in multiformi gradi di vincolo autolimitanti, che conducevano all’appiattimento del pensare e del fare. Quella era l’epoca d’oro (nella turris eburnea della formazione superiore) dell’appropriato e del progressivo ed era anche il momento in cui si cercava di dare significato operativo alle sperimentazioni di normative prestazionali, che partivano soprattutto dall’housing sociale. Ecco quindi il dilemma che si palesava sulle lavagne poco pulite dell’Università: conferire allo standard in Edilizia quanto in Architettura un ambito più finalizzato di applicazione per cercare di recuperare spazi e significati per il progetto tecnologico (e non solo) o continuare ad ottimizzare un processo che facilita uno sviluppo quantitativo del mercato ma con scarsa e ridotta intelligenza competitiva?In verità, non c’è nulla di difettoso. Lo standard è una norma, una regola, una modalità certa, imposta o verificata con protocolli e processi produttivi, che a caduta facilita le scelte delle materie prime, la realizzazione delle macchine di fabbricazione, lo stoccaggio, impone una specifica descrizione di capitolato, migliora il trasporto, fino all’arrivo in cantiere e alla semplificazione della messa in opera. Insomma, offre molte sicurezze. Operare con lo standard, applicare lo standard, rende semplice molte cose che si cosano disegnando e costruendo. Immediato, ad esempio, a come la progettazione di un organismo edilizio o di un alloggio si basi ancora su “standard” come le densità fondiarie e territoriali, la numerosità delle persone, le caratteristiche degli ambienti confinati, decidendo a priori la superficie orizzontale per dormire (da soli o in coppia) o per cucinare: un parametro non perfetto anche per gli abitanti di Flatlandia di Abbot! In altre parole citando Nicola Sinopoli: “comunque lo standard sta a significare un minimo valido in un determinato momento storico e per un determinato contesto (…) e nell’edilizia gli standard sono applicati sia agli aspetti progettuali (quantità di spazio interna degli alloggi) sia a quelli tecnologici o ambientali (…), in tutti i casi lo standard si esprime con dei numeri al di sotto o al di sopra dei quali non si può andare”. Provate ad immagine che cosa determina tutto questo ancora in Italia nel campo dello standard tipologico! E non è banale che proprio dalla scuola fiorentina, da quella scuola che, fondando un Dipartimento aveva scelto di chiamarlo allora “Processi e metodi della produzione edilizia”, un drappello di giovani ricercatori e altrettanto giovani professori, tentasse di far tornare un ragionamento al cuore del problema partendo dallo spazio e dalle sue multiformi funzioni, ragionando di prestazioni, requisiti ed esigenze. Un percorso complesso perché prevedeva che il progettista avesse prima di tutto “capacità di dialogo e volontà di collaborazione, consapevolezza che il proprio ruolo si realizza se e in quanto partecipa con tutti gli altri al processo della costruzione” (Zaffagnini).Nel vivere da studente quel periodo, ognuno di noi che era seduto tra i banchi viveva con dicotomia il salto di scala intellettuale e critico che si palesava di fronte ad ogni cambio di docente, quando un architetto “tecnologo” prendeva il posto di un architetto “compositivo”: sembrava un altro mondo. Anche perché la difesa del pensiero e delle idee avveniva soprattutto nei fatti, nelle azioni didattiche (lezioni, revisioni, contenuti e modalità d’esame) che registravano una coerenza quasi religiosa a quanto si voleva insegnare. Non tutti gli studenti comprendevano lo sforzo e molti erano insofferenti all’applicazione di un processo (logico e quindi fortemente formativo) che sembrava ai loro occhi solo sostituire uno standard con un altro, tanto era sistematico il desiderio e quindi l’azione di verifica di ogni fase: valutare e descrivere le funzioni e le esigenze, stimare le prestazioni, definire le categorie, quantificare e selezionare i componenti, ecc. Gli abitatori di quelle case erano utenti (e, ahimé, lo sarebbero stati per molto tempo ancora) che fluivano in un metabolismo del loro nucleo attraverso una flessibilità morfologica che coinvolgeva la tipologia dell’impianto edilizio ed ogni suo parte. Una finestra, un infisso, erano parti di un componente di “chiusura estera”, talmente ricchi di variazioni, potenziali espressivi e funzionali, che potevano non avere limiti di progettualità, straripando gli argini dello standard imposti dal mitico “legno d’abete della Val di Fiemme” del capitolato IACP, che aveva fatto la fortuna di un comprensorio di produzione industriale del legno nel Secondo Dopoguerra.Dopo quasi trent’anni sembra impossibile credere che certe cose siano accadute. Nell’attualità di un sana austerity, imposta da una crisi economica generata dall’inappropriato e dallo speculativo, ogni vero progettista spinge al massimo l’acceleratore dell’intelligenza e della creatività sulle richieste esigenziali di tutti i componenti e non c’è proprio nessuno che oggi metta in dubbio il significato dello standard (che nella normativa tecnica esprime il valore medio giudicato sufficiente a soddisfare una certa esigenza) e il valore di una normativa tecnica ambientale e tecnologica prestazionale e procedurale, più cosciente e responsabile per dare qualità al progetto architettonico.Adesso chiudo l’album dei ricordi. E ripenso al dialogo e alla dialettica consapevole che alcuni miei maestri mi hanno educato a rendere possibile, a facilitare, a trasmettere, e di come devo a loro molto di quello che sono.
2009
Balzani, Marcello
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