L’idea di verticale, che rende affidabile il significato, fa emergere dal mio mare dei ricordi qualcosa di biologico e qualcosa di sacro. Il biologico. Dato che da quadrupedi l’imago mundi non era granché e i musi erano indirizzati a conservare odori e suoni più che immagini e colori, si pensò bene di rende la nostra evoluzione indirizzata non tanto all’allungamento del collo (che è una sindrome di verticalità anch’essa ma volta al desiderio di giraffità) quanto al porsi in piedi, in posizione eretta, piedritta, verticale. Si dice che non fu un caso quanto una necessità (parola molto interessante di cui un giorno spero sia data dignità di dizionario anche nella nostra e-zine) e il tutto rese l’ominide meno attraente sul piano di alcune qualificazioni atletiche (come la velocità ad esempio) ma sicuramente più immaginativo ed astratto (aver la testa fra le nuvole era ed è un’esperienza incommensurabile). Comunque, per farla breve, la comparsa in Africa dell’Homo erectus (che potremmo similmente chiamare Uomo verticale) è una tappa fondamentale nel nostro ricordo. Da quel momento, che scorre indietro sul regolo temporale di qualche milione di anni, non solo ci separammo dalla scimmia ancestrale, ma iniziò un “confuso sentiero evolutivo” che rese possibile un progresso vocato per molti aspetti ad alzare, erigere, trasformare il mondo secondo una tensione che era ed è parte della nostra essenza vitale, del nostro desiderio di tirarsi su (da piccoli come da grandi), perché l’orizzontale è per il corpo senza vita, quel cadavere a cui non vogliamo assomigliare e che nel sonno mimetizza con il sogno un’altra verticalità. Quante forme e tipologie architettoniche sono traduzioni di capacità umane che l’atto del costruire materializza! Un antropomorfismo che, guarda caso, proprio con la verticalità esprime il massimo della forza creativa. Il sacro. Norberg–Schulz scriveva che la verticale “è stata sempre considerata la dimensione sacra dello spazio. Essa rappresenta il –percorso- verso una realtà –superiore- o –inferiore- alla vita quotidiana, una realtà in grado di conquistare peso (gravità), ossia di conquistare l’esistenza terrena, in caso contrario di soccombervi”. L’ipotesi che nel verticale si annidi uno spirito è continua e incessante: - sarà perché è in alto e non si riesce bene a mettere a fuoco, - sarà perché tra le nuvole (che coprono le vette dell’Olimpo) gli dei si nascondo, - sarà perché delle piramidi o torri erette per un Paradiso (terrestre) o scavate verso il centro della terra lungo i gironi infernali è trasversalmente impregnata ogni cultura, - sarà perché si fa fatica (tanta) a tirare su le cose (e particolarmente l’architettura) che è destinata ad essere fondata prima di essere innalzata, - sarà perché il concretizzarsi di questa fatica per tanti secoli è stata possibile solo attraverso la magia dell’architetto-costruttore (che nel Rinascimento diventa scienziato), - sarà perché lottare contro le forze di gravità, contro il vento, contro l’incredibile riverbero che amplifica ogni fessura e ogni distacco quando la terra trema, richiede un coraggio e una coscienza che si innalzano dalla media, sarà per altre motivazioni ancora, ma la verticalità genera vertigine, ossia stimola la caduta, opera perché si torni indietro, facilità la perdita dei sensi, della testa. Quindi per dirla con G. K. Chesterton (“Qualsiasi cosa sia, l’uomo è un’eccezione (…) Se non è un essere divino caduto dall’Eden, allora può solo trattarsi di un animale che ha completamente perso la testa”) la nostra aspirazione, che forse è retaggio di un’ancestrale periodo divino o semidivino, è sono un incubo, un’idiosincrasia che rumoreggia in fondo al nostro labirinto (dell’orecchio interno come della memoria profonda) che cerca di rimuovere il ricordo di una (sacra) caduta e lo fa sollevando in piedi un animale antico, nato dalla terra ed aggrappato ad essa.

Vertigine

BALZANI, Marcello
2009

Abstract

L’idea di verticale, che rende affidabile il significato, fa emergere dal mio mare dei ricordi qualcosa di biologico e qualcosa di sacro. Il biologico. Dato che da quadrupedi l’imago mundi non era granché e i musi erano indirizzati a conservare odori e suoni più che immagini e colori, si pensò bene di rende la nostra evoluzione indirizzata non tanto all’allungamento del collo (che è una sindrome di verticalità anch’essa ma volta al desiderio di giraffità) quanto al porsi in piedi, in posizione eretta, piedritta, verticale. Si dice che non fu un caso quanto una necessità (parola molto interessante di cui un giorno spero sia data dignità di dizionario anche nella nostra e-zine) e il tutto rese l’ominide meno attraente sul piano di alcune qualificazioni atletiche (come la velocità ad esempio) ma sicuramente più immaginativo ed astratto (aver la testa fra le nuvole era ed è un’esperienza incommensurabile). Comunque, per farla breve, la comparsa in Africa dell’Homo erectus (che potremmo similmente chiamare Uomo verticale) è una tappa fondamentale nel nostro ricordo. Da quel momento, che scorre indietro sul regolo temporale di qualche milione di anni, non solo ci separammo dalla scimmia ancestrale, ma iniziò un “confuso sentiero evolutivo” che rese possibile un progresso vocato per molti aspetti ad alzare, erigere, trasformare il mondo secondo una tensione che era ed è parte della nostra essenza vitale, del nostro desiderio di tirarsi su (da piccoli come da grandi), perché l’orizzontale è per il corpo senza vita, quel cadavere a cui non vogliamo assomigliare e che nel sonno mimetizza con il sogno un’altra verticalità. Quante forme e tipologie architettoniche sono traduzioni di capacità umane che l’atto del costruire materializza! Un antropomorfismo che, guarda caso, proprio con la verticalità esprime il massimo della forza creativa. Il sacro. Norberg–Schulz scriveva che la verticale “è stata sempre considerata la dimensione sacra dello spazio. Essa rappresenta il –percorso- verso una realtà –superiore- o –inferiore- alla vita quotidiana, una realtà in grado di conquistare peso (gravità), ossia di conquistare l’esistenza terrena, in caso contrario di soccombervi”. L’ipotesi che nel verticale si annidi uno spirito è continua e incessante: - sarà perché è in alto e non si riesce bene a mettere a fuoco, - sarà perché tra le nuvole (che coprono le vette dell’Olimpo) gli dei si nascondo, - sarà perché delle piramidi o torri erette per un Paradiso (terrestre) o scavate verso il centro della terra lungo i gironi infernali è trasversalmente impregnata ogni cultura, - sarà perché si fa fatica (tanta) a tirare su le cose (e particolarmente l’architettura) che è destinata ad essere fondata prima di essere innalzata, - sarà perché il concretizzarsi di questa fatica per tanti secoli è stata possibile solo attraverso la magia dell’architetto-costruttore (che nel Rinascimento diventa scienziato), - sarà perché lottare contro le forze di gravità, contro il vento, contro l’incredibile riverbero che amplifica ogni fessura e ogni distacco quando la terra trema, richiede un coraggio e una coscienza che si innalzano dalla media, sarà per altre motivazioni ancora, ma la verticalità genera vertigine, ossia stimola la caduta, opera perché si torni indietro, facilità la perdita dei sensi, della testa. Quindi per dirla con G. K. Chesterton (“Qualsiasi cosa sia, l’uomo è un’eccezione (…) Se non è un essere divino caduto dall’Eden, allora può solo trattarsi di un animale che ha completamente perso la testa”) la nostra aspirazione, che forse è retaggio di un’ancestrale periodo divino o semidivino, è sono un incubo, un’idiosincrasia che rumoreggia in fondo al nostro labirinto (dell’orecchio interno come della memoria profonda) che cerca di rimuovere il ricordo di una (sacra) caduta e lo fa sollevando in piedi un animale antico, nato dalla terra ed aggrappato ad essa.
2009
Balzani, Marcello
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