Diverse sono le logiche che possono presiedere all’analisi del processo di edificazione in ambiti agricoli. Le discriminanti si diramano fondamentalmente in due gruppi di famiglie di origine, ambedue sorgenti dal significato potenziale urbanistico riferibile al termine “processo”. Se da un lato infatti il settore primario offre una disponibilità espansiva del fabbricato colonico in funzione delle attività agricole ad esso connesse costituendo il cuore storico del processo di trasformazione del territorio, dall’altro è altrettanto innegabile che la saldatura dei confini tra città e campagna ha portato con sé, in molte ampie parti di suoli, ruoli e funzioni atomizzate di urbanizzazione. Ecco quindi i due scenari: 1 - i luoghi delle case sparse, per lo più nuclei collinari e montani, in cui i sistemi infrastrutturali e i potenziali di interesse speculativo sono scarsi se non nulli e in cui la problematica è più rivolta a determinare una lotta all’abbandono e all’incuria. Essi mantengono ancora gradi ed elementi di identità, favoriscono la valorizzazione appropriata del contesto naturale, rappresentano un capitale culturale di tradizioni costruttive ed auto-costruttive in cui tecnologie apparentemente semplici sono invece ricche di sapienze materiche e simboliche. È una realtà in cui grande sforzo di ricerca e documentazione è spesso stato impegnato in raccordo con gli enti territoriali per determinare non solo modelli conoscitivi ma anche tentativi di conservazione; 2 - la campagna urbanizzata, che diversamente dal precedente, non è più ormai un luogo ma un sistema di frammenti di territorio che marginalizzano o conformano le parti sfuocate della città diffusa. La progressione del processo è stata per la maggioranza dei modelli regionali più rapida e violenta dove la piccola e media impresa ha avuto successo ed espansione ed ha conseguito consenso e fiducia nel ruolo contrattato della pianificazione soprattutto durante ultimi quarant’anni. La grande corona che circonda il mistilineo patchwork del retinato urbano è la zona bianca, che porta con sé un attributo apparentemente non descritto e sottende un significante velato di non-controllo. In un confronto tra forme si può affermare che guardando la cartografia storica le discontinuità che potevano apparire traumatiche duecento anni fa quando i primi segni di modernizzazione venivano introdotti nell’ambiente agricolo, attraverso le infrastrutture idrauliche, oggi non solo sono state ampiamente metabolizzate, ma sovrintendono l’immagine di un ambiente che è stato storicamente da sempre sottoposto ad una continua ma coerente “modellazione antropica”. I drammi sono diversi ma altrettanto profondi ed ormai tramandati geneticamente nei comportamenti che le comunità rivolgo alle preesistenze: anacronismo e ipocrisia. Anacronismo del semplice tentativo descrittivo che simula la conoscenza per poi non trovare un rapporto con i più rapidi processi di trasformazione che non accolgono nei ritmi e nelle quantificazione delle esigenze i tempi e le logiche del recupero. Ipocrisia di un modello vincolistico che apparentemente tenta con la tutela di preservare ma che, nei fatti, conduce alla progressiva distruzione di uno straordinario patrimonio diffuso. Nel caso della campagna urbanizzata la condizione è doppiamente drammatica in quanto parallelamente alla perdita di identità e di valore del patrimonio rurale (rivolta non solo al costruito ma anche al paesaggio) si è affiancata un’azione combinata di decentramento. In un mondo dove l’economia era integralmente agricola appariva naturale che la campagna fosse il luogo della produzione e dell’abitazione dei contadini, con una minima intersezione industriale connessa alla trasformazione dei prodotti. In un mondo in cui la vocazione industriale, apparsa con forza negli anni Sessanta del secolo scorso, si è rapidamente trasformata in un intenso processo di attività terziarie al servizio della produzione (che nella crisi attuale mostra tragicamente i suoi limiti) la ricerca di spazio e di suoli a basso costo ha prodotto un decentramento spontaneo prima, pianificato e stimolato fiscalmente poi (vedi la Legge 635), operante soprattutto nei comuni di pianura e pedemontani. L’operazione, accompagnata dal supporto di urbanizzazione primaria (reti e servizi) facilitata dall’amministrazioni locali e dal potenziamento infrastrutturale, ha costituito un ottimo viatico per un conseguente decentramento, quello residenziale. Sull’idea di policentrismo apparente, che faceva leva sul ruolo delle frazioni o dei centri minori, si è travasata popolazione predisponendo una progressiva ibridazione della campagna in periferia urbana. Un’azione quindi combinata di decentramento che ha predisposto aree artigianali e industriali, allontanando dalle città potenziali magneti di traffico e di congestione per occupare suolo agricolo con strade e autostrade, che in breve diventano la rete di supporto per centri commerciali infracomunali connessi ad un’inutile atomizzazione di piccoli centri direzionali, motivando così lo sviluppo di tessuti residenziali morfologicamente scollegati da qualunque idea di contesto. Una contaminazione che agisce con forza sistematica sulle forme, sulle tipologie, sui materiali, sui colori, sui tessuti di connessione che determinavano un tempo la continuità delle unità di paesaggio. Dall’altro campo della corda i relitti. Sono residui di una tradizione e di un significato del territorio che non riescono a far parte dell’offerta di sviluppo che le esigenze attuali propongono alla campagna. Un quadro normativo contraddittorio e una difesa anacronistica della destinazione produttiva non hanno certo facilitato la tutela. Chiedere alle case di campagna di rimane ai contadini come servizio e strumento del processo produttivo è stato ed è tragicamente inutile perché quando muta il modello di gestione agricola (aziende agricole o cooperative) cambia radicalmente anche il rapporto tra insediati e superficie agraria. I vecchi contadini smettono di lavorare la terra e vanno ad abitare in città o meglio nell’espansione urbana creata ad hoc e chi rimane non solo ha nuove regole di produzione a cui far riferimento ma anche nuovi strumenti, diverse tecniche e quindi nuove esigenze. Si genera allora, nella situazione apparentemente più protetta (che è quella in cui la destinazione d’uso rimane coerente) un’impotenza attiva. L’imprenditore agricolo di nuova generazione a volte (anche se raramente) vorrebbe recuperare la “corte agricola” ma il vincolo di tutela e i costi di recupero lo spingono a realizzare capannoni prefabbricati accanto ai fienili in disuso, abitazioni a villetta sopraelevata con relativa cantinetta seminterrata accanto all’edificato rurale inadeguato per altezze, volumi, aperture, e così nel corso di qualche decennio una distruzione silenziosa snatura l’impianto storico e rende attivo un processo di trasformazione ma impotente il recupero della memoria. Allora la violenza del processo, come si scriveva nell’incipit di questo breve testo, diviene esplicita. Gli strumenti urbanistici degli enti locali individuano, sulla scorta di una modellistica investigativa che fa riferimento all’analisi morfo-tipologica gli oggetti da schedare e, dopo attenta disamina e preciso rilievo descrittivo, alcune realtà non ancora perdute entrano di diritto in un trasparente miglio verde: in altre parole, se ne conferma il futuro di abbandono prima e di auto-distruzione poi. I relitti sono sotto gli occhi di tutti. Con straordinaria facilità è possibile, percorrendo le strade delle nostre campagne, individuare edificati prestigiosi non per ricchezza ma per tradizioni e cultura che, classificati con la lettera scarlatta dell’obbligo di tutela, vedono alle loro spalle sorgere i cugini dai caratteri urbani con ammiccamenti vernacolari (Edgar Morin usava per identificare questa fase i termini di neo-arcaismo e di nuovo modernismo rurale), mentre giorno per giorno lo sciame sismico dell’incuria distrugge parti ed elementi, fino a quando non sarà più neppure necessario porre un vincolo di tutela su qualcosa di realmente presente. Quindi il volume perduto (perché in fondo è questo quello che interessa ad un certo tipo di politica dello sviluppo) potrà anche essere riconverto nella nuova razza allogenica di edifici in cui il DNA della città vince su quello della campagna. Un quadro sconfortante, che era apparso chiaro nei meccanismi e nel potenziale di effetti, da oltre dieci anni durante qualificate campagne di rilievo e di analisi in molti contesti rurali del nostro Paese. Cosa è successo dopo? In Emilia-Romagna alcuni comprensori territoriali di piccoli e medi comuni o di comunità montane hanno cercato di modificare gli strumenti urbanistici, sulla scorta di approfondite indagini preventive, al fine di individuare delle nuove regole del gioco finalizzate all’incentivazione del recupero del patrimonio rurale esistente. Le metodologie operative hanno riguardato essenzialmente da un lato la riduzione o l’eliminazione dell’applicazione del vincolo di destinazione d’uso esclusivamente connesso alla produzione agricola e dall’altro la creazione di linee guida per definire modelli di comportamento nella ristrutturazione che rendessero coerenti scelte tecnologiche e materiche. Processi di conoscenza e di riconoscimento identitario che sono alla base di una riappropriazione sostenibile e strategica del territorio, anche nell’ottica di una formula di attenzione alla realtà circostante che oggi più che mai può essere portatrice di molte opportunità. I modelli non sono comunque semplici: si scontrano con il confronto dei costi, di potenzialità funzionali e di flessibilità.
Campagna urbanizzata. Una ipotesi critica sui processi di trasformazioni e sulle regole del gioco sospese tra tutela, sviluppo e valorizzazione
BALZANI, Marcello
2009
Abstract
Diverse sono le logiche che possono presiedere all’analisi del processo di edificazione in ambiti agricoli. Le discriminanti si diramano fondamentalmente in due gruppi di famiglie di origine, ambedue sorgenti dal significato potenziale urbanistico riferibile al termine “processo”. Se da un lato infatti il settore primario offre una disponibilità espansiva del fabbricato colonico in funzione delle attività agricole ad esso connesse costituendo il cuore storico del processo di trasformazione del territorio, dall’altro è altrettanto innegabile che la saldatura dei confini tra città e campagna ha portato con sé, in molte ampie parti di suoli, ruoli e funzioni atomizzate di urbanizzazione. Ecco quindi i due scenari: 1 - i luoghi delle case sparse, per lo più nuclei collinari e montani, in cui i sistemi infrastrutturali e i potenziali di interesse speculativo sono scarsi se non nulli e in cui la problematica è più rivolta a determinare una lotta all’abbandono e all’incuria. Essi mantengono ancora gradi ed elementi di identità, favoriscono la valorizzazione appropriata del contesto naturale, rappresentano un capitale culturale di tradizioni costruttive ed auto-costruttive in cui tecnologie apparentemente semplici sono invece ricche di sapienze materiche e simboliche. È una realtà in cui grande sforzo di ricerca e documentazione è spesso stato impegnato in raccordo con gli enti territoriali per determinare non solo modelli conoscitivi ma anche tentativi di conservazione; 2 - la campagna urbanizzata, che diversamente dal precedente, non è più ormai un luogo ma un sistema di frammenti di territorio che marginalizzano o conformano le parti sfuocate della città diffusa. La progressione del processo è stata per la maggioranza dei modelli regionali più rapida e violenta dove la piccola e media impresa ha avuto successo ed espansione ed ha conseguito consenso e fiducia nel ruolo contrattato della pianificazione soprattutto durante ultimi quarant’anni. La grande corona che circonda il mistilineo patchwork del retinato urbano è la zona bianca, che porta con sé un attributo apparentemente non descritto e sottende un significante velato di non-controllo. In un confronto tra forme si può affermare che guardando la cartografia storica le discontinuità che potevano apparire traumatiche duecento anni fa quando i primi segni di modernizzazione venivano introdotti nell’ambiente agricolo, attraverso le infrastrutture idrauliche, oggi non solo sono state ampiamente metabolizzate, ma sovrintendono l’immagine di un ambiente che è stato storicamente da sempre sottoposto ad una continua ma coerente “modellazione antropica”. I drammi sono diversi ma altrettanto profondi ed ormai tramandati geneticamente nei comportamenti che le comunità rivolgo alle preesistenze: anacronismo e ipocrisia. Anacronismo del semplice tentativo descrittivo che simula la conoscenza per poi non trovare un rapporto con i più rapidi processi di trasformazione che non accolgono nei ritmi e nelle quantificazione delle esigenze i tempi e le logiche del recupero. Ipocrisia di un modello vincolistico che apparentemente tenta con la tutela di preservare ma che, nei fatti, conduce alla progressiva distruzione di uno straordinario patrimonio diffuso. Nel caso della campagna urbanizzata la condizione è doppiamente drammatica in quanto parallelamente alla perdita di identità e di valore del patrimonio rurale (rivolta non solo al costruito ma anche al paesaggio) si è affiancata un’azione combinata di decentramento. In un mondo dove l’economia era integralmente agricola appariva naturale che la campagna fosse il luogo della produzione e dell’abitazione dei contadini, con una minima intersezione industriale connessa alla trasformazione dei prodotti. In un mondo in cui la vocazione industriale, apparsa con forza negli anni Sessanta del secolo scorso, si è rapidamente trasformata in un intenso processo di attività terziarie al servizio della produzione (che nella crisi attuale mostra tragicamente i suoi limiti) la ricerca di spazio e di suoli a basso costo ha prodotto un decentramento spontaneo prima, pianificato e stimolato fiscalmente poi (vedi la Legge 635), operante soprattutto nei comuni di pianura e pedemontani. L’operazione, accompagnata dal supporto di urbanizzazione primaria (reti e servizi) facilitata dall’amministrazioni locali e dal potenziamento infrastrutturale, ha costituito un ottimo viatico per un conseguente decentramento, quello residenziale. Sull’idea di policentrismo apparente, che faceva leva sul ruolo delle frazioni o dei centri minori, si è travasata popolazione predisponendo una progressiva ibridazione della campagna in periferia urbana. Un’azione quindi combinata di decentramento che ha predisposto aree artigianali e industriali, allontanando dalle città potenziali magneti di traffico e di congestione per occupare suolo agricolo con strade e autostrade, che in breve diventano la rete di supporto per centri commerciali infracomunali connessi ad un’inutile atomizzazione di piccoli centri direzionali, motivando così lo sviluppo di tessuti residenziali morfologicamente scollegati da qualunque idea di contesto. Una contaminazione che agisce con forza sistematica sulle forme, sulle tipologie, sui materiali, sui colori, sui tessuti di connessione che determinavano un tempo la continuità delle unità di paesaggio. Dall’altro campo della corda i relitti. Sono residui di una tradizione e di un significato del territorio che non riescono a far parte dell’offerta di sviluppo che le esigenze attuali propongono alla campagna. Un quadro normativo contraddittorio e una difesa anacronistica della destinazione produttiva non hanno certo facilitato la tutela. Chiedere alle case di campagna di rimane ai contadini come servizio e strumento del processo produttivo è stato ed è tragicamente inutile perché quando muta il modello di gestione agricola (aziende agricole o cooperative) cambia radicalmente anche il rapporto tra insediati e superficie agraria. I vecchi contadini smettono di lavorare la terra e vanno ad abitare in città o meglio nell’espansione urbana creata ad hoc e chi rimane non solo ha nuove regole di produzione a cui far riferimento ma anche nuovi strumenti, diverse tecniche e quindi nuove esigenze. Si genera allora, nella situazione apparentemente più protetta (che è quella in cui la destinazione d’uso rimane coerente) un’impotenza attiva. L’imprenditore agricolo di nuova generazione a volte (anche se raramente) vorrebbe recuperare la “corte agricola” ma il vincolo di tutela e i costi di recupero lo spingono a realizzare capannoni prefabbricati accanto ai fienili in disuso, abitazioni a villetta sopraelevata con relativa cantinetta seminterrata accanto all’edificato rurale inadeguato per altezze, volumi, aperture, e così nel corso di qualche decennio una distruzione silenziosa snatura l’impianto storico e rende attivo un processo di trasformazione ma impotente il recupero della memoria. Allora la violenza del processo, come si scriveva nell’incipit di questo breve testo, diviene esplicita. Gli strumenti urbanistici degli enti locali individuano, sulla scorta di una modellistica investigativa che fa riferimento all’analisi morfo-tipologica gli oggetti da schedare e, dopo attenta disamina e preciso rilievo descrittivo, alcune realtà non ancora perdute entrano di diritto in un trasparente miglio verde: in altre parole, se ne conferma il futuro di abbandono prima e di auto-distruzione poi. I relitti sono sotto gli occhi di tutti. Con straordinaria facilità è possibile, percorrendo le strade delle nostre campagne, individuare edificati prestigiosi non per ricchezza ma per tradizioni e cultura che, classificati con la lettera scarlatta dell’obbligo di tutela, vedono alle loro spalle sorgere i cugini dai caratteri urbani con ammiccamenti vernacolari (Edgar Morin usava per identificare questa fase i termini di neo-arcaismo e di nuovo modernismo rurale), mentre giorno per giorno lo sciame sismico dell’incuria distrugge parti ed elementi, fino a quando non sarà più neppure necessario porre un vincolo di tutela su qualcosa di realmente presente. Quindi il volume perduto (perché in fondo è questo quello che interessa ad un certo tipo di politica dello sviluppo) potrà anche essere riconverto nella nuova razza allogenica di edifici in cui il DNA della città vince su quello della campagna. Un quadro sconfortante, che era apparso chiaro nei meccanismi e nel potenziale di effetti, da oltre dieci anni durante qualificate campagne di rilievo e di analisi in molti contesti rurali del nostro Paese. Cosa è successo dopo? In Emilia-Romagna alcuni comprensori territoriali di piccoli e medi comuni o di comunità montane hanno cercato di modificare gli strumenti urbanistici, sulla scorta di approfondite indagini preventive, al fine di individuare delle nuove regole del gioco finalizzate all’incentivazione del recupero del patrimonio rurale esistente. Le metodologie operative hanno riguardato essenzialmente da un lato la riduzione o l’eliminazione dell’applicazione del vincolo di destinazione d’uso esclusivamente connesso alla produzione agricola e dall’altro la creazione di linee guida per definire modelli di comportamento nella ristrutturazione che rendessero coerenti scelte tecnologiche e materiche. Processi di conoscenza e di riconoscimento identitario che sono alla base di una riappropriazione sostenibile e strategica del territorio, anche nell’ottica di una formula di attenzione alla realtà circostante che oggi più che mai può essere portatrice di molte opportunità. I modelli non sono comunque semplici: si scontrano con il confronto dei costi, di potenzialità funzionali e di flessibilità.I documenti in SFERA sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.