È vero che i neri hanno la musica nel sangue? Che gli ebrei sono più intelligenti? Che gli scandinavi non sono molto allegri? E che dei levantini non ci si può fidare? O che gli slavi sono efferati? E, per venire a casa nostra, che i napoletani sono sempre allegri? E che i milanesi pensano solo a lavorare? O i genovesi non spendono volentieri? Viaggiando attraverso i luoghi comuni del razzismo è difficile trovare risposte a queste domande, ma, per fortuna, si possono fare scoperte sorprendenti: la più grande delle quali, forse, è che si può tranquillamente fare a meno di parlare di razze. Guido Barbujani, genetista e studioso dell’evoluzione e Pietro Cheli, giornalista culturale, ne parlano tra scienza, storia e letteratura, in un breve ma intenso viaggio, partendo dallo stato dell’arte del razzismo, dalle sue connotazioni tradizionali e dai nuovi aspetti che sta assumendo in un mondo sempre più caratterizzato da imponenti flussi migratori e da nuove incertezze sulla nostra identità. Passano poi a una necessaria difesa del pregiudizio, strumento insostituibile per orientarci nel mondo finché non siamo in grado di formarci un nostro giudizio. La resistenza del pregiudizio oltre i suoi limiti ragionevoli rende però problematiche le interazioni fra persone: un esempio viene dalle recenti dichiarazioni del premio Nobel James Watson sulla intelligenza degli africani, inferiore a quella degli europei e, secondo Watson, scientificamente dimostrata. Prendendo sul serio questa affermazione, il libro passa in rassegna quello che la scienza può dirci sulle nostre capacità cognitive, su come si misurano (o si cerca di misurarle), e sulla biodiversità umana, cioè sull’insieme delle differenze biologiche fra i membri della nostra specie. La conclusione è che il concetto di intelligenza è molto soggettivo, che misurarla è perciò difficile o difficilissimo, e soprattutto che da qualche decennio non ha più senso scientifico parlare di razze umane. Gli studi recenti sul DNA indicano come la nostra specie abbia avuto una storia evolutiva breve e caratterizzata da continui scambi fra popolazioni, senza i fenomeni di isolamento che in altre specie, per esempio negli orang-utan, hanno portato alla formazione di razze distinte. Noi umani non siamo come gli orang-utan: siamo piuttosto tutti parenti e tutti differenti; e siamo, ci dice il DNA (e ce lo confermano i fossili) tutti africani, tutti immigrati di recente nei Paesi dove viviamo e dove prima viveva qualcun altro. Il libro si chiude con un capitolo intitolato “Sono razzista, ma sto cercando di smettere”. Perché se si può dimostrare scientificamente che le razze nell’uomo non esistono, i razzisti esistono eccome, e bisogna anche ammettere che tutti noi dobbiamo fare i conti con la diffidenza e la paura dell’ “altro”.

Sono razzista, ma sto cercando di smettere

BARBUJANI, Guido;
2008

Abstract

È vero che i neri hanno la musica nel sangue? Che gli ebrei sono più intelligenti? Che gli scandinavi non sono molto allegri? E che dei levantini non ci si può fidare? O che gli slavi sono efferati? E, per venire a casa nostra, che i napoletani sono sempre allegri? E che i milanesi pensano solo a lavorare? O i genovesi non spendono volentieri? Viaggiando attraverso i luoghi comuni del razzismo è difficile trovare risposte a queste domande, ma, per fortuna, si possono fare scoperte sorprendenti: la più grande delle quali, forse, è che si può tranquillamente fare a meno di parlare di razze. Guido Barbujani, genetista e studioso dell’evoluzione e Pietro Cheli, giornalista culturale, ne parlano tra scienza, storia e letteratura, in un breve ma intenso viaggio, partendo dallo stato dell’arte del razzismo, dalle sue connotazioni tradizionali e dai nuovi aspetti che sta assumendo in un mondo sempre più caratterizzato da imponenti flussi migratori e da nuove incertezze sulla nostra identità. Passano poi a una necessaria difesa del pregiudizio, strumento insostituibile per orientarci nel mondo finché non siamo in grado di formarci un nostro giudizio. La resistenza del pregiudizio oltre i suoi limiti ragionevoli rende però problematiche le interazioni fra persone: un esempio viene dalle recenti dichiarazioni del premio Nobel James Watson sulla intelligenza degli africani, inferiore a quella degli europei e, secondo Watson, scientificamente dimostrata. Prendendo sul serio questa affermazione, il libro passa in rassegna quello che la scienza può dirci sulle nostre capacità cognitive, su come si misurano (o si cerca di misurarle), e sulla biodiversità umana, cioè sull’insieme delle differenze biologiche fra i membri della nostra specie. La conclusione è che il concetto di intelligenza è molto soggettivo, che misurarla è perciò difficile o difficilissimo, e soprattutto che da qualche decennio non ha più senso scientifico parlare di razze umane. Gli studi recenti sul DNA indicano come la nostra specie abbia avuto una storia evolutiva breve e caratterizzata da continui scambi fra popolazioni, senza i fenomeni di isolamento che in altre specie, per esempio negli orang-utan, hanno portato alla formazione di razze distinte. Noi umani non siamo come gli orang-utan: siamo piuttosto tutti parenti e tutti differenti; e siamo, ci dice il DNA (e ce lo confermano i fossili) tutti africani, tutti immigrati di recente nei Paesi dove viviamo e dove prima viveva qualcun altro. Il libro si chiude con un capitolo intitolato “Sono razzista, ma sto cercando di smettere”. Perché se si può dimostrare scientificamente che le razze nell’uomo non esistono, i razzisti esistono eccome, e bisogna anche ammettere che tutti noi dobbiamo fare i conti con la diffidenza e la paura dell’ “altro”.
2008
9788842086604
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