Il “made in Italy” sembra essere apprezzato dal consumatore pressoché sempre (giusto o sbagliato che sia, vera o falsa che sia quell’equazione di cui si diceva). Ed essendo il “made in Italy” così amato dal consumatore, esso rappresenta (almeno per l’impresa che opera in Italia) una sorta di valore aggiunto pret-a-porter: il fatto di porlo in evidenza agli occhi dell’acquirente è una tecnica di marketing bell’e pronta, semplice e di sicuro successo. Tuttavia, la complessità dei processi produttivi – quella complessità che può dar luogo alle più svariate combinazioni di cui si è detto, fino al caso estremo di prodotti che sono soltanto confezionati in Italia, con la sola apposizione di un marchio italiano – ci permette di comprendere quale enorme varietà di significati l’espressione “made in Italy” possa avere in concreto, secondo il linguaggio comune, ma anche quante insidie, incertezze, frodi o semplici inesattezze, si possano celare dietro quell’espressione. E proprio perché, nelle varie situazioni che si verificano nel mondo dell’economia, la componente italiana può essere presente nella più varia misura – dal “tutto” di un’arancia coltivata in Sicilia al quasi-niente di una maglia fabbricata in oriente e su cui a Milano è solo cucita l’etichetta – occorre anzitutto intendersi; occorre, prima di tutto, che all’espressione “made in Italy” venga attribuito un significato comune, sul quale tutti ci si capisca immediatamente: un significato sul quale, magari, non tutti saranno sempre d’accordo, ma che sia comunque univoco, e come tale garantito e tutelato dalla legge, in modo che tutti i consumatori vi possano fare un tranquillo affidamento. Solo così chi acquisterà un prodotto potrà sentirsi protetto da frodi. Ma anche chi lo produce e/o lo immette sul mercato ne avrà un vantaggio, almeno nel medio o lungo periodo: anch’egli sarà protetto contro comportamenti fraudolenti dei propri concorrenti, ad evitare che questi ultimi si approprino ingiustamente di quel “valore aggiunto”, di quell’appeal, senza averne motivo, senza aver affrontato quelle difficoltà che a volte incontra chi non vuole esternalizzare parte del processo produttivo, e senza neppure aver sostenuto quei maggiori costi che, per lo più, gravano sulla produzione svolta dentro ai nostri confini nazionali. Qui servono le norme: servono regole che stabiliscano quel concetto comune ed univoco di “made in Italy”, che chiariscano una volta per tutte, magari convenzionalmente, quando un prodotto può chiamarsi italiano, e quando no; servono sanzioni (previste da norme) che dissuadano dal commettere le violazioni; servono controlli (disciplinati da norme), senza i quali le sanzioni resterebbero lettera morta.
L'interpretazione giuridica del concetto di Made in Italy
BORGHI, Paolo
2008
Abstract
Il “made in Italy” sembra essere apprezzato dal consumatore pressoché sempre (giusto o sbagliato che sia, vera o falsa che sia quell’equazione di cui si diceva). Ed essendo il “made in Italy” così amato dal consumatore, esso rappresenta (almeno per l’impresa che opera in Italia) una sorta di valore aggiunto pret-a-porter: il fatto di porlo in evidenza agli occhi dell’acquirente è una tecnica di marketing bell’e pronta, semplice e di sicuro successo. Tuttavia, la complessità dei processi produttivi – quella complessità che può dar luogo alle più svariate combinazioni di cui si è detto, fino al caso estremo di prodotti che sono soltanto confezionati in Italia, con la sola apposizione di un marchio italiano – ci permette di comprendere quale enorme varietà di significati l’espressione “made in Italy” possa avere in concreto, secondo il linguaggio comune, ma anche quante insidie, incertezze, frodi o semplici inesattezze, si possano celare dietro quell’espressione. E proprio perché, nelle varie situazioni che si verificano nel mondo dell’economia, la componente italiana può essere presente nella più varia misura – dal “tutto” di un’arancia coltivata in Sicilia al quasi-niente di una maglia fabbricata in oriente e su cui a Milano è solo cucita l’etichetta – occorre anzitutto intendersi; occorre, prima di tutto, che all’espressione “made in Italy” venga attribuito un significato comune, sul quale tutti ci si capisca immediatamente: un significato sul quale, magari, non tutti saranno sempre d’accordo, ma che sia comunque univoco, e come tale garantito e tutelato dalla legge, in modo che tutti i consumatori vi possano fare un tranquillo affidamento. Solo così chi acquisterà un prodotto potrà sentirsi protetto da frodi. Ma anche chi lo produce e/o lo immette sul mercato ne avrà un vantaggio, almeno nel medio o lungo periodo: anch’egli sarà protetto contro comportamenti fraudolenti dei propri concorrenti, ad evitare che questi ultimi si approprino ingiustamente di quel “valore aggiunto”, di quell’appeal, senza averne motivo, senza aver affrontato quelle difficoltà che a volte incontra chi non vuole esternalizzare parte del processo produttivo, e senza neppure aver sostenuto quei maggiori costi che, per lo più, gravano sulla produzione svolta dentro ai nostri confini nazionali. Qui servono le norme: servono regole che stabiliscano quel concetto comune ed univoco di “made in Italy”, che chiariscano una volta per tutte, magari convenzionalmente, quando un prodotto può chiamarsi italiano, e quando no; servono sanzioni (previste da norme) che dissuadano dal commettere le violazioni; servono controlli (disciplinati da norme), senza i quali le sanzioni resterebbero lettera morta.I documenti in SFERA sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.