La competitività salariale è intesa come lo strumento cardine per conseguire l'obiettivo di competitibità, che opera via riduzioni del costo unitario del lavoro, tale da accrescere la competitività di costo europea nei mercati globali. Per la Commissione Europea ciò si realizza con interventi che ridimensionano il ruolo della contrattazione collettiva, nazionale e di settore, nella determinazione dei salari nominali, che invece devono essere allineati alla produttività dell’impresa, meglio ancora dei singoli lavoratori. Al contempo i salari reali non devono essere preservati da meccanismo di indicizzazione e salvaguardia del potere d’acquisto, ma rispondere alle condizioni di un mercato del lavoro concorrenziale, dove ingressi ed uscite devono essere peraltro deregolati per servire le esigenze produttive dell’impresa, senza interferenze esercitate dalle istituzioni che vincolano l’agire manageriale e creano anche barriere tra i lavoratori protetti e garantiti, gli insider, e coloro che non lo sono, gli outsider. In fondo la precarietà o la disoccupazione non sono altro che l’altra faccia della medaglia dell’operare di istituzioni collettive: ridimensioniate queste, saranno ridimensionate sia la precarietà che la disoccupazione. Una narrazione questa che viene resa più appealing dalle tecniche economiche sulla disoccupazione strutturale che portano quella italiana all’11% lasciando un misero 2% per quella involontaria keynesiana. Così da far risultare evidente ciò che evidente non è, ovvero che non sia la domanda il problema, semmai le condizioni di offerta, e quindi la necessità delle riforme strutturali. Una narrazione che, se non fosse per le technicalities impiegate, ricorda molto l’ancien régime.
Le politiche che uccidono l'Europa
PINI, Paolo
2014
Abstract
La competitività salariale è intesa come lo strumento cardine per conseguire l'obiettivo di competitibità, che opera via riduzioni del costo unitario del lavoro, tale da accrescere la competitività di costo europea nei mercati globali. Per la Commissione Europea ciò si realizza con interventi che ridimensionano il ruolo della contrattazione collettiva, nazionale e di settore, nella determinazione dei salari nominali, che invece devono essere allineati alla produttività dell’impresa, meglio ancora dei singoli lavoratori. Al contempo i salari reali non devono essere preservati da meccanismo di indicizzazione e salvaguardia del potere d’acquisto, ma rispondere alle condizioni di un mercato del lavoro concorrenziale, dove ingressi ed uscite devono essere peraltro deregolati per servire le esigenze produttive dell’impresa, senza interferenze esercitate dalle istituzioni che vincolano l’agire manageriale e creano anche barriere tra i lavoratori protetti e garantiti, gli insider, e coloro che non lo sono, gli outsider. In fondo la precarietà o la disoccupazione non sono altro che l’altra faccia della medaglia dell’operare di istituzioni collettive: ridimensioniate queste, saranno ridimensionate sia la precarietà che la disoccupazione. Una narrazione questa che viene resa più appealing dalle tecniche economiche sulla disoccupazione strutturale che portano quella italiana all’11% lasciando un misero 2% per quella involontaria keynesiana. Così da far risultare evidente ciò che evidente non è, ovvero che non sia la domanda il problema, semmai le condizioni di offerta, e quindi la necessità delle riforme strutturali. Una narrazione che, se non fosse per le technicalities impiegate, ricorda molto l’ancien régime.I documenti in SFERA sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.