Al limitare del bosco già si cominciava a percepirne la presenza. Suoni che entravano nell’aria tra il frusciare delle fronde. Rumori estranei che riverberavano tra il colore denso del fogliame. E poi gli odori. Un inteso sapore diluito nel vapore che si espandeva risalendo sul crinale, come una nuvola artificiale. Prima di vedere. Prima di riconoscere… Per migliaia di anni l’umanità è giunta all’urbano con questa modalità. Quale fosse l’immagine della città o il simbolo di appartenenza, il significato che la parola portava con sé era connesso ad un antagonismo tra naturale e artificiale, tra la città di pietra e tutto il resto (anche antropizzato nella modellazione produttiva di una collina o di una pianura). E nel mio ricordo di piccolo bambino dei primi anni Sessanta del secolo scorso, abitante di una città di provincia immersa nella campagna, il rapporto con i confini urbani appariva netto, distinguibile nelle forme, nelle luci come nei sapori e nei profumi. Con la bicicletta uscivo dai viali, che percorrevano il segno delle mura abbattute, attraversavo la linea della ferrovia sul passaggio a livello, e l’urbano rimaneva alle mie spalle, scosso da qualche suono armeggiante di camion e di veicoli in debole corsa. Fuori, fuori dall’urbs, dai suoi confini sacri e civili segnati dai campanili e dalle torri, rimanevo un istante ad assaporare un’ancestrale reminescenza, che mi permetteva di sentire il suono di una grande porta chiudersi per accettare di essere altrove. L’altrove dei fossi, dei canali, delle strade interpoderali, che bordavano campi incolti, distese di frutteti, qua e là accentati da qualche casa colonica o da un fienile. E il tempo scorreva diversamente nell’andare alla scoperta di percorsi sconosciuti su cui alterare irreparabilmente la meccanica della mia due ruote. Questo era per me l’urbano. Per me che ero nato in città e che portavo dentro almeno altri duecento anni di eredità famigliare riconoscibile tra strade e vicoli dei quartieri antichi. Per me che non possedevo il ricordo della campagna se non nei racconti dei genitori sfollati e dei contadini che intersecavano la vita ogni giorno. Per me che sono litico (rubo l’idea di questa identificazione all’amico scultore Pinuccio Sciola), che sento il potere gravitazionale dell’urbs, la vocazione ad interpretare la piazza e la strada, ad interrogare la città dei vivi sulle molteplici, stratificate città dei morti, che in essa convivono. Per me che tendo l’orecchio all’ascolto (sempre più flebile e indistinguibile) della voce dei miti che l’urbano ha prodotto e produce, in quell’incrocio, sotto quel porticato, sul fronte di quella casa. Mitologie che ne rendono possibile l’esistenza, anche nell’incuria, nell’ostentata amnesia, sotto l’influsso di alibi identificati spesso da riqualificazioni omologanti. E se oggi quel confine non è più leggibile perché la città diffusa e la campagna urbanizzata si sono fuse insieme, gli scenari urbani, anche quelli governati dal tempo della storia, vengono incessantemente plasmati dagli effetti di una distruzione silenziosa, che, operando per frammenti o per macrosegni, modifica i rapporti percettivi, riveste le superfici, accosta materiali, colori e forme con nuovi, e spesso estranei, linguaggi. L’urbano è costituito fondamentalmente da un’articolata struttura connettiva in cui i vuoti concorrono a disegnare le forme spaziali. Soprattutto nella città storica questo universo complesso è stato generato da una relazione di tanti sistemi strutturati: il tessuto edificato che si affaccia sulle strade e sulle piazze definisce delle quinte che comunicano il continuo rapporto di scambio (valori, forme, funzioni, significati) tra la città pubblica e le molteplici città private, altrettanti universi complessi, che sono costituite dalle case e dai palazzi. Nell’urbano si attivano molte azioni dell'abitare, desideri di identificazione, bisogni di appartenenza, sentimenti di libertà e di mobilità, richieste di privacy, e tutti quei micro-rituali quotidiani che intervengono ad identificare queste situazioni urbane come luoghi, o come probabili luoghi, dove il mercato della trasformazione edilizia raggiunge i suoi livelli più alti per estensione e contemporaneamente più atomizzati per quantità di fatti esecutivi. Ecco che, quindi, il senso di dispersione prende il sopravvento su quello di coesione, carattere costitutivo dell’urbano, e i fattori differenziali, i gradi di variazione si riducono fino ad annullarsi. Forse oggi non si possiedono pienamente gli strumenti per comprendere quanto sta accadendo. Forse i modelli applicabili non aiutano perché configurati su contenuti e tipologie ormai anacronistiche. Forse l’urbano è ancora lì, con tutta la sua forza e il suo potere centripeto, solo che non lo vediamo, perché le nostre menti sono nell’attesa di sentire chiudersi, alle nostre spalle, le pesante ante di un’antica porta. Immutato spazio.

Urbano?

BALZANI, Marcello
2010

Abstract

Al limitare del bosco già si cominciava a percepirne la presenza. Suoni che entravano nell’aria tra il frusciare delle fronde. Rumori estranei che riverberavano tra il colore denso del fogliame. E poi gli odori. Un inteso sapore diluito nel vapore che si espandeva risalendo sul crinale, come una nuvola artificiale. Prima di vedere. Prima di riconoscere… Per migliaia di anni l’umanità è giunta all’urbano con questa modalità. Quale fosse l’immagine della città o il simbolo di appartenenza, il significato che la parola portava con sé era connesso ad un antagonismo tra naturale e artificiale, tra la città di pietra e tutto il resto (anche antropizzato nella modellazione produttiva di una collina o di una pianura). E nel mio ricordo di piccolo bambino dei primi anni Sessanta del secolo scorso, abitante di una città di provincia immersa nella campagna, il rapporto con i confini urbani appariva netto, distinguibile nelle forme, nelle luci come nei sapori e nei profumi. Con la bicicletta uscivo dai viali, che percorrevano il segno delle mura abbattute, attraversavo la linea della ferrovia sul passaggio a livello, e l’urbano rimaneva alle mie spalle, scosso da qualche suono armeggiante di camion e di veicoli in debole corsa. Fuori, fuori dall’urbs, dai suoi confini sacri e civili segnati dai campanili e dalle torri, rimanevo un istante ad assaporare un’ancestrale reminescenza, che mi permetteva di sentire il suono di una grande porta chiudersi per accettare di essere altrove. L’altrove dei fossi, dei canali, delle strade interpoderali, che bordavano campi incolti, distese di frutteti, qua e là accentati da qualche casa colonica o da un fienile. E il tempo scorreva diversamente nell’andare alla scoperta di percorsi sconosciuti su cui alterare irreparabilmente la meccanica della mia due ruote. Questo era per me l’urbano. Per me che ero nato in città e che portavo dentro almeno altri duecento anni di eredità famigliare riconoscibile tra strade e vicoli dei quartieri antichi. Per me che non possedevo il ricordo della campagna se non nei racconti dei genitori sfollati e dei contadini che intersecavano la vita ogni giorno. Per me che sono litico (rubo l’idea di questa identificazione all’amico scultore Pinuccio Sciola), che sento il potere gravitazionale dell’urbs, la vocazione ad interpretare la piazza e la strada, ad interrogare la città dei vivi sulle molteplici, stratificate città dei morti, che in essa convivono. Per me che tendo l’orecchio all’ascolto (sempre più flebile e indistinguibile) della voce dei miti che l’urbano ha prodotto e produce, in quell’incrocio, sotto quel porticato, sul fronte di quella casa. Mitologie che ne rendono possibile l’esistenza, anche nell’incuria, nell’ostentata amnesia, sotto l’influsso di alibi identificati spesso da riqualificazioni omologanti. E se oggi quel confine non è più leggibile perché la città diffusa e la campagna urbanizzata si sono fuse insieme, gli scenari urbani, anche quelli governati dal tempo della storia, vengono incessantemente plasmati dagli effetti di una distruzione silenziosa, che, operando per frammenti o per macrosegni, modifica i rapporti percettivi, riveste le superfici, accosta materiali, colori e forme con nuovi, e spesso estranei, linguaggi. L’urbano è costituito fondamentalmente da un’articolata struttura connettiva in cui i vuoti concorrono a disegnare le forme spaziali. Soprattutto nella città storica questo universo complesso è stato generato da una relazione di tanti sistemi strutturati: il tessuto edificato che si affaccia sulle strade e sulle piazze definisce delle quinte che comunicano il continuo rapporto di scambio (valori, forme, funzioni, significati) tra la città pubblica e le molteplici città private, altrettanti universi complessi, che sono costituite dalle case e dai palazzi. Nell’urbano si attivano molte azioni dell'abitare, desideri di identificazione, bisogni di appartenenza, sentimenti di libertà e di mobilità, richieste di privacy, e tutti quei micro-rituali quotidiani che intervengono ad identificare queste situazioni urbane come luoghi, o come probabili luoghi, dove il mercato della trasformazione edilizia raggiunge i suoi livelli più alti per estensione e contemporaneamente più atomizzati per quantità di fatti esecutivi. Ecco che, quindi, il senso di dispersione prende il sopravvento su quello di coesione, carattere costitutivo dell’urbano, e i fattori differenziali, i gradi di variazione si riducono fino ad annullarsi. Forse oggi non si possiedono pienamente gli strumenti per comprendere quanto sta accadendo. Forse i modelli applicabili non aiutano perché configurati su contenuti e tipologie ormai anacronistiche. Forse l’urbano è ancora lì, con tutta la sua forza e il suo potere centripeto, solo che non lo vediamo, perché le nostre menti sono nell’attesa di sentire chiudersi, alle nostre spalle, le pesante ante di un’antica porta. Immutato spazio.
2010
Balzani, Marcello
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