Un salto mortale.Un rapido, inatteso, apparentemente superfluo, salto mortale. Mi viene da compierlo perché l’inquinamento acustico (ed anche concettuale) che scaturisce dalle infinite riflessioni che ogni giorno si generano ad ogni emissione del termine sostenibilità è intollerabile, vicino alla soglia del dolore. Una nebbia, un vacuo liquido amorfo, che immerge tutto e tutti, in una legittimazione di necessità che qualifica ogni esigenza. Ma come si fa a credere che l’architettura possa essere sostenibile?Non è una domanda peregrina. Perché se si sconfina dal recinto dell’orticello ben coltivato delle utopie, lo sguardo, che l’occhio e il cervello attivano, contempla una realtà ben diversa nell’incessante proteiforme sviluppo che ci circonda. E se la crisi ha ridotto (e ridurrà forse ancora di più nell’anno che apre una nuova decade millenaria) gli spazi per operare, i segnali (concreti) che la ripresa si attesti per rilanciare il settore su logiche e processi nuovi, non sono così diffusi. Anzi, appare piuttosto il contrario: che nella difficoltà di recuperare spazi (per manovrare interessi e per costruire prodotti soprattutto da vendere) si utilizzi maggiormente la strategia del “falso in casa”, ovvero dell’imitazione, del simulacro, del feticcio combinato con un po’ di kitsch tecnologico e un po’ di obblighi normativi.Indiscutibile invece è la crescita del dibattito, sia nel tentativo (più o meno cosciente) di argomentare “qualcosa di sostenibile”, sia nel bisogno di far parte di un pensiero collettivo che accredita parti di popolazione (appartenenti in ogni habitat dell’ecosistema ad una comunità di esseri viventi non troppo rispettati) verso valori di nuovi e antichi saperi.Ma torniamo al salto mortale; il salto nato dal gioco di parole sulle parole che compongono il titolo di una delle più famose opere di Milan Kundera:da un lato è stato semplice con il grassetto e il cambiamento di corpo estrarre e far risaltare dalla stringa di segni grafici l’ambito tematico d’interesse;dall’altro, per la “legge del contrappasso”, saltando il girone infernale e sostituendo l’architettura all’esistenza (cosa non troppo folle se si pensa a chi, come gli architetti, vivono di essa) ecco che sull’aggettivo qualificativo (e qui sta l’ironia che il carpiato impone) non poteva che agire il suo contrario.La volontà di “fare architettura” appare, per la natura che la determina, come un’esplicita antitesi alla sostenibilità. Un’azione che cerca di subentrare attivamente nella logica del tempo umano per dare desiderio di ripetizione, per creare una discontinuità che coaguli una presenza cosciente, per far avvenire ogni esperienza. E la forza e il potere energetico di cui è intrisa l’architettura non possono che renderla pesante, pesantissima. Proprio perché, rispetto all’esistenza umana unica e vissuta trascurabilmente, coscientemente (o incoscientemente) ahimè solo una volta, l’architettura impone di prendere delle decisioni perché l’eidotipo (lo schizzo di Kundera) si trasformi materialmente, si contamini con il tempo, appartenga a più vite.E qui sta, oggi più che mai, la difficoltà di comprensione.Se fino a poco tempo fa questa pesantezza non solo era ma doveva essere sostenibile, nella realtà del nostro sviluppo contemporaneo l’insostenibilità è sotto gli occhi di tutti. Un’insostenibilità che viene tragicamente a confliggere proprio con le motivazioni per le quali l’architettura dovrebbe aiutarci a viver meglio (anche felicemente) il battito d’ali di farfalla di ogni nostra individuale presenza sul pianeta. E se Kundera scrive che il “tempo umano non ruota in cerchio, ma avanza veloce in linea retta” e che “l’uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione” penso che l’architettura (nelle sue più diversificate forme e scale), se sarà capace di trovare un “equilibrio fra il soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere la possibilità delle future generazioni di sopperire alle proprie” (Rapporto Brundtland del 1987) tornerà ad essere quella straordinaria esperienza che ci permette, ogni volta, di fare un salto mortale carpiato per vivere la vita, coscienti di poterlo ripetere in sicurezza e in qualità per tutti.

L'inSOSTENIBILE pesantezza dell'architettura

BALZANI, Marcello
2010

Abstract

Un salto mortale.Un rapido, inatteso, apparentemente superfluo, salto mortale. Mi viene da compierlo perché l’inquinamento acustico (ed anche concettuale) che scaturisce dalle infinite riflessioni che ogni giorno si generano ad ogni emissione del termine sostenibilità è intollerabile, vicino alla soglia del dolore. Una nebbia, un vacuo liquido amorfo, che immerge tutto e tutti, in una legittimazione di necessità che qualifica ogni esigenza. Ma come si fa a credere che l’architettura possa essere sostenibile?Non è una domanda peregrina. Perché se si sconfina dal recinto dell’orticello ben coltivato delle utopie, lo sguardo, che l’occhio e il cervello attivano, contempla una realtà ben diversa nell’incessante proteiforme sviluppo che ci circonda. E se la crisi ha ridotto (e ridurrà forse ancora di più nell’anno che apre una nuova decade millenaria) gli spazi per operare, i segnali (concreti) che la ripresa si attesti per rilanciare il settore su logiche e processi nuovi, non sono così diffusi. Anzi, appare piuttosto il contrario: che nella difficoltà di recuperare spazi (per manovrare interessi e per costruire prodotti soprattutto da vendere) si utilizzi maggiormente la strategia del “falso in casa”, ovvero dell’imitazione, del simulacro, del feticcio combinato con un po’ di kitsch tecnologico e un po’ di obblighi normativi.Indiscutibile invece è la crescita del dibattito, sia nel tentativo (più o meno cosciente) di argomentare “qualcosa di sostenibile”, sia nel bisogno di far parte di un pensiero collettivo che accredita parti di popolazione (appartenenti in ogni habitat dell’ecosistema ad una comunità di esseri viventi non troppo rispettati) verso valori di nuovi e antichi saperi.Ma torniamo al salto mortale; il salto nato dal gioco di parole sulle parole che compongono il titolo di una delle più famose opere di Milan Kundera:da un lato è stato semplice con il grassetto e il cambiamento di corpo estrarre e far risaltare dalla stringa di segni grafici l’ambito tematico d’interesse;dall’altro, per la “legge del contrappasso”, saltando il girone infernale e sostituendo l’architettura all’esistenza (cosa non troppo folle se si pensa a chi, come gli architetti, vivono di essa) ecco che sull’aggettivo qualificativo (e qui sta l’ironia che il carpiato impone) non poteva che agire il suo contrario.La volontà di “fare architettura” appare, per la natura che la determina, come un’esplicita antitesi alla sostenibilità. Un’azione che cerca di subentrare attivamente nella logica del tempo umano per dare desiderio di ripetizione, per creare una discontinuità che coaguli una presenza cosciente, per far avvenire ogni esperienza. E la forza e il potere energetico di cui è intrisa l’architettura non possono che renderla pesante, pesantissima. Proprio perché, rispetto all’esistenza umana unica e vissuta trascurabilmente, coscientemente (o incoscientemente) ahimè solo una volta, l’architettura impone di prendere delle decisioni perché l’eidotipo (lo schizzo di Kundera) si trasformi materialmente, si contamini con il tempo, appartenga a più vite.E qui sta, oggi più che mai, la difficoltà di comprensione.Se fino a poco tempo fa questa pesantezza non solo era ma doveva essere sostenibile, nella realtà del nostro sviluppo contemporaneo l’insostenibilità è sotto gli occhi di tutti. Un’insostenibilità che viene tragicamente a confliggere proprio con le motivazioni per le quali l’architettura dovrebbe aiutarci a viver meglio (anche felicemente) il battito d’ali di farfalla di ogni nostra individuale presenza sul pianeta. E se Kundera scrive che il “tempo umano non ruota in cerchio, ma avanza veloce in linea retta” e che “l’uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione” penso che l’architettura (nelle sue più diversificate forme e scale), se sarà capace di trovare un “equilibrio fra il soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere la possibilità delle future generazioni di sopperire alle proprie” (Rapporto Brundtland del 1987) tornerà ad essere quella straordinaria esperienza che ci permette, ogni volta, di fare un salto mortale carpiato per vivere la vita, coscienti di poterlo ripetere in sicurezza e in qualità per tutti.
2010
Balzani, Marcello
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