Non se ne può fare a meno. La sua assenza produce di solito il vuoto, che per quando rarefatto è sempre in qualche modo denso di qualcosa. Eppure, per quanto essenziale, la densità è anche sfuggente come gran parte delle caratteristiche qualificative che descrivono proprietà delle sostanze di cui sono fatti i corpi. Se da un lato, infatti, la densità è l’inequivocabile risultato della massa per unità di volume, dall’altro bisogna sempre ricordare che tale prodotto non è indipendente dall’ambiente esterno (si potrebbe tentare una similitudine con le condizioni urbane) ovvero risulta intrinsecamente collegato alle condizioni di temperatura e di pressione. Come a dire che pensare alla densità astrattamente, racchiusi in un planivolumetrico formale (e spesso digitale), non permette di comprendere cosa sta succedendo, non dà valore alla materia di cui la forma è costituita, non innesca la visualizzazione e la presa di coscienza delle tensioni che confinano superfici concrete a scale concrete. Se poi si varca il limen della principale definizione del termine e si assumono significati secondari (e forse più coerenti nell’ambito tecnico, architettonico ed urbanistico) è fondamentale recuperare dai percorsi mnestici che la parola rimanda ad un rapporto spaziale in cui la densità di numero si collega alla superficie. Essere denso pone sul palato i sapori intensi dei significati di consistenza e di concentrazione, che fanno scintille con i significati contrari di inconsistenza e di rarefazione. In questo caso si potrebbe pacificamente ammettere che i contrari non sono proprio tali, ma solo diverse misure di densità. E qui, ricollegandoci all’incipit di queste brevi e libere sollecitazioni, veniamo al nocciolo del problema in quanto più in generale si definisce densità il rapporto tra una data grandezza e l'estensione su cui essa si distribuisce e non solo per la densità lineare di massa o per la densità elettrica superficiale, anche per le città, per i tessuti urbani, per lo spazio costruito. Già perché la città, oggi più che mai, è impegnata nella titanica lotta tra gli interessi e le politiche della dispersione finalizzata a divorare suolo e la ricerca di una densificazione che non conduca solo a consolidare una forma dequalificata nell’attesa di nuove marginalizzazioni. Mentre si ricercano, negli anfratti sperimentali dell’urbanistica, diverse strategie anti-sprawl, l’atomizzazione urbana di cui molti paesaggi sono costituiti rimandano all’idea della città diffusa che “può essere letta come l’esito della libertà degli attori” (Amendola) che ne sono partecipi. Una libertà (solo apparente) in cui viene dato da credere che ognuno è in grado di costruire la propria città (così come i propri tempi di vita e di lavoro) secondo l’immagine (ammiccatemene consumistica) di una “città alla carta” (Chalas) dove risulta concessa la possibilità di “ordinare” dal “menù” portate dai piaceri originali quanto selettivi, come il waterfront o la edge city. Il margine costituisce da sempre un interessante intersezione spaziale in cui far confluire ogni mediazione di densità, che venga dal rarefatto o dall’iperdenso. Eppure, mentre in occidente ogni secondo si edificano vari metri quadri di suolo con ritmi di espansione non certo più tollerabili, sembra sorgere una presa di coscienza più ampia sul ruolo e sul significato che questi ingrandimenti determinino. L’allontanamento dalla città porosa (Benjamin) è stato rapido e autoalimentato, pregiudicando (a volte in modo irreparabile) elementi identitari consolidati in secoli, forse perché il cityscape ha preso il sopravvento sul mindscape, quel “panorama dell’anima e della cultura delle città” (Amendola) che è da sempre servito da contraltare ai poteri dei falsi scopi che uniformizzano strappando le radici (culturali, affettive, responsabili perché parzialmente autosufficienti) e che basterebbe rileggere Balzac o Baudelaire per individuarne i prodromi nella nascente città industriale europea. La città disfatta (Sernini) probabilmente identifica al meglio il senso di dispersione (non solo urbanistico ma anche emozionale) che molte processi edificatori hanno prodotto. Processi che non hanno tenuto conto della nostra impronta ecologica (quasi sempre infestante e distruttiva) e che può costituire invece un riferimento interessante per invertire la rotta. La densità può, allora, diventare una strumento per misurare in modo più cosciente molti aspetti della città, che non sono mai separati ma connessi e influenzati (trasporti, energia, rifiuti, decentramento produttivo) e che determinano a cascata altre densità (di traffico, di consumo, di smaltimento), per aprire la strada a modelli di economia locale sostenibile ed adattabile, finalizzate a ridurre l’impronta ecologica per lasciar spazio al mondo che ci circonda e che ci permette di vivere. Da una densità relativa, non solo al modo di valutare lo spazio ma anche agli interessi di alcuni (e solo di alcuni attori) si può passare ad una eco-densità, che punta ad utilizzare la sostenibilità ambientale come criterio principale per prendere ogni decisione urbanistica ed edilizia e non solo su numeri, ma anche su tipi, morfologie, tecnologie, cicli dei materiali, ecc. Come a dire che non è più possibile utilizzare la densità senza porsi domande rispetto alle condizioni ambientali in cui si opera…… il ché, fin dall’inizio, doveva essere ovvio nel significato del termine.

Relative Density -> Eco-Density

BALZANI, Marcello
2009

Abstract

Non se ne può fare a meno. La sua assenza produce di solito il vuoto, che per quando rarefatto è sempre in qualche modo denso di qualcosa. Eppure, per quanto essenziale, la densità è anche sfuggente come gran parte delle caratteristiche qualificative che descrivono proprietà delle sostanze di cui sono fatti i corpi. Se da un lato, infatti, la densità è l’inequivocabile risultato della massa per unità di volume, dall’altro bisogna sempre ricordare che tale prodotto non è indipendente dall’ambiente esterno (si potrebbe tentare una similitudine con le condizioni urbane) ovvero risulta intrinsecamente collegato alle condizioni di temperatura e di pressione. Come a dire che pensare alla densità astrattamente, racchiusi in un planivolumetrico formale (e spesso digitale), non permette di comprendere cosa sta succedendo, non dà valore alla materia di cui la forma è costituita, non innesca la visualizzazione e la presa di coscienza delle tensioni che confinano superfici concrete a scale concrete. Se poi si varca il limen della principale definizione del termine e si assumono significati secondari (e forse più coerenti nell’ambito tecnico, architettonico ed urbanistico) è fondamentale recuperare dai percorsi mnestici che la parola rimanda ad un rapporto spaziale in cui la densità di numero si collega alla superficie. Essere denso pone sul palato i sapori intensi dei significati di consistenza e di concentrazione, che fanno scintille con i significati contrari di inconsistenza e di rarefazione. In questo caso si potrebbe pacificamente ammettere che i contrari non sono proprio tali, ma solo diverse misure di densità. E qui, ricollegandoci all’incipit di queste brevi e libere sollecitazioni, veniamo al nocciolo del problema in quanto più in generale si definisce densità il rapporto tra una data grandezza e l'estensione su cui essa si distribuisce e non solo per la densità lineare di massa o per la densità elettrica superficiale, anche per le città, per i tessuti urbani, per lo spazio costruito. Già perché la città, oggi più che mai, è impegnata nella titanica lotta tra gli interessi e le politiche della dispersione finalizzata a divorare suolo e la ricerca di una densificazione che non conduca solo a consolidare una forma dequalificata nell’attesa di nuove marginalizzazioni. Mentre si ricercano, negli anfratti sperimentali dell’urbanistica, diverse strategie anti-sprawl, l’atomizzazione urbana di cui molti paesaggi sono costituiti rimandano all’idea della città diffusa che “può essere letta come l’esito della libertà degli attori” (Amendola) che ne sono partecipi. Una libertà (solo apparente) in cui viene dato da credere che ognuno è in grado di costruire la propria città (così come i propri tempi di vita e di lavoro) secondo l’immagine (ammiccatemene consumistica) di una “città alla carta” (Chalas) dove risulta concessa la possibilità di “ordinare” dal “menù” portate dai piaceri originali quanto selettivi, come il waterfront o la edge city. Il margine costituisce da sempre un interessante intersezione spaziale in cui far confluire ogni mediazione di densità, che venga dal rarefatto o dall’iperdenso. Eppure, mentre in occidente ogni secondo si edificano vari metri quadri di suolo con ritmi di espansione non certo più tollerabili, sembra sorgere una presa di coscienza più ampia sul ruolo e sul significato che questi ingrandimenti determinino. L’allontanamento dalla città porosa (Benjamin) è stato rapido e autoalimentato, pregiudicando (a volte in modo irreparabile) elementi identitari consolidati in secoli, forse perché il cityscape ha preso il sopravvento sul mindscape, quel “panorama dell’anima e della cultura delle città” (Amendola) che è da sempre servito da contraltare ai poteri dei falsi scopi che uniformizzano strappando le radici (culturali, affettive, responsabili perché parzialmente autosufficienti) e che basterebbe rileggere Balzac o Baudelaire per individuarne i prodromi nella nascente città industriale europea. La città disfatta (Sernini) probabilmente identifica al meglio il senso di dispersione (non solo urbanistico ma anche emozionale) che molte processi edificatori hanno prodotto. Processi che non hanno tenuto conto della nostra impronta ecologica (quasi sempre infestante e distruttiva) e che può costituire invece un riferimento interessante per invertire la rotta. La densità può, allora, diventare una strumento per misurare in modo più cosciente molti aspetti della città, che non sono mai separati ma connessi e influenzati (trasporti, energia, rifiuti, decentramento produttivo) e che determinano a cascata altre densità (di traffico, di consumo, di smaltimento), per aprire la strada a modelli di economia locale sostenibile ed adattabile, finalizzate a ridurre l’impronta ecologica per lasciar spazio al mondo che ci circonda e che ci permette di vivere. Da una densità relativa, non solo al modo di valutare lo spazio ma anche agli interessi di alcuni (e solo di alcuni attori) si può passare ad una eco-densità, che punta ad utilizzare la sostenibilità ambientale come criterio principale per prendere ogni decisione urbanistica ed edilizia e non solo su numeri, ma anche su tipi, morfologie, tecnologie, cicli dei materiali, ecc. Come a dire che non è più possibile utilizzare la densità senza porsi domande rispetto alle condizioni ambientali in cui si opera…… il ché, fin dall’inizio, doveva essere ovvio nel significato del termine.
2009
Balzani, Marcello
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